La dollarizzazione di Milei non può fare a meno della Cina
Il nuovo presidente dovrà prendere atto che gli interessi di Pechino in Argentina sono in parte anche i suoi
Buongiorno da Shanghai.
Dopo la vittoria nel ballottaggio di domenica, Javier Milei si insedierà nella Casa Rosada il 10 dicembre, diventando ufficialmente presidente della Repubblica Argentina. L’ascesa al potere del populista ultra-liberista pone alla leadership di Pechino due sfide, una nel medio periodo, l’altra immediata. Per quanto riguarda la prima - in attesa del voto nel 2024 in Messico e Venezuela - c’è il timore che possa esaurirsi la “marea rosa”, il ciclo di governi di centrosinistra, fautori di una politica estera molto aperta alla cooperazione con la Cina. Sull’impatto che il nuovo governo di Buenos Aires avrà invece sul rapporto bilaterale Cina-Argentina, c’è grande incertezza, legata alla imprevedibilità del personaggio Milei, e alla quantità di variabili (economiche, politiche, geopolitiche) in gioco.
In campagna elettorale Milei ha promesso: «Non farò affari con paesi comunisti» e ha detto di voler tagliare le relazioni con la Cina in favore di quelle «con il mondo civilizzato», che il cinquantatreenne economista identifica soprattutto con gli Stati Uniti. A urne ancora calde, Diana Mondino, la sua consigliera in predicato di diventare ministra degli esteri, ha annunciato che l’Argentina rinuncerà a entrare nei Brics guidati da Cina e Russia, ai quali avrebbe dovuto aderire il 1° gennaio prossimo, dopo l’allargamento a sei novi paesi deliberato dal vertice di Johannesburg del 24 agosto scorso. Pechino ha minimizzato questa mossa, sottolineando che quella dei Brics (un forum informale) è «una famiglia aperta a chi voglia farne parte».
Per quanto riguarda invece la relazione bilaterale, la portavoce del ministero degli esteri, Mao Ning, ha dichiarato che «c’è un consenso ampiamente condiviso tra le persone di tutto lo spettro sociale di entrambi i paesi per far crescere ulteriormente le relazioni Cina-Argentina, che hanno portato benefici tangibili a entrambi i popoli».
La Cina è il secondo partner commerciale dell’Argentina (dopo il Brasile). Nel 2022, l’Argentina ha importato dalla Cina beni per 17,5 miliardi di dollari, e ne ha esportati per 7,9 miliardi di dollari. Per la Cina il paese sudamericano è un importante fornitore di materie prime alimentari, soprattutto semi di soia, sorgo, orzo e carne bovina, prodotti di uno dei settori più importanti dell’economia argentina.
Con Milei torna nella sua tradizionalmente sfera d’influenza statunitense un paese che con la presidenza di Alberto Fernandez ha aderito (il 5 febbraio 2022) alla Belt and Road Initiative, dopo essere entrata, due anni prima, nella Asian Infrastrutture Investment Bank (Aiib). Il rafforzamento delle relazioni con Pechino ha permesso alle disastrate casse dello stato di avere accesso a fonti di finanziamento supplementari (a guida cinese): quelle della Aiib, per i progetti con il brand della nuova via della Seta, e della New Development Bank dei Brics, mentre i debiti di Buenos Aires con il Fondo monetario internazionale raggiungevano gli attuali 43 miliardi di dollari. Ma a legare da un punto di vista finanziario l’Argentina alla Cina è stato soprattutto il meccanismo di cambio delle rispettive valute istituito tra le due banche centrali.
Questo sistema, che ha permesso all’Argentina di vendere pesos e ottenere yuan a tassi di cambio e d’interesse concordati col governo cinese, si è rivelato fondamentale - come dimostra uno studio del Fondo monetario internazionale - per evitare il default del paese sudamericano sul debito nei confronti dello stesso Fmi, sopperendo alla mancanza di dollari - in una fase in cui, il mese scorso, l’inflazione ha toccato il 142% - grazie agli yuan, una delle valute accettate dal Fmi.
Per quanto possa sembrare assurdo e, nonostante le implicazioni sulla sovranità argentina, Milei andrà avanti con il suo piano di dollarizzazione del paese, ovvero di (graduale) sostituzione del peso con il dollaro e la relativa abolizione della banca centrale: è per questo che ha ottenuto il mandato dagli elettori.
Cosa ne sarà del meccanismo di cambio tra la banca centrale argentina e quella cinese? Lo sviluppo più probabile è che Milei non possa rinunciarvi, perché la dollarizzazione non avverrà da un giorno all’altro. Dunque la linea di swap della banca centrale di Pechino potrebbe rimanere in vigore per un periodo transitorio.
Del resto, il mantenimento di buone relazioni con la Cina è stata la condicio sine qua non posta dall’ex presidente Mauricio Macri per garantire al ballottaggio il sostegno della sua destra moderata alla scalata al potere di Milei. Secondo il Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (Conicet), dal 2008 l’Argentina ha ottenuto dalla Cina prestiti per 8,1 miliardi di dollari, arrivati soprattutto attraverso la China Development Bank e la Export-Import Bank of China.
Il 30 agosto scorso, la banca centrale di Pechino ha annunciato il “primo investimento diretto in Argentina in yuan”, nell’ambito della sua promozione come valuta alternativa al dollaro per il commercio internazionale. La scarsità di valuta estera pregiata e il crescente rischio d’insolvenza sul debito con i creditori internazionali hanno avvicinato l’Argentina (così come altri paesi latinoamericani) alla valuta cinese, che negli ultimi mesi ha ottenuto il via libera del governo Fernandez per essere utilizzata (in luogo del biglietto verde) nel commercio bilaterale, così come per finanziare una serie di progetti infrastrutturali.
William Lai sceglie come sua vice la rappresentante di Taiwan negli Usa Hsiao Bi-khim
William Lai ha scelto come sua vice nella corsa verso il voto del 13 gennaio - e dunque come vice presidente in caso di vittoria - Hsiao Bi-khim, la rappresentante dell’Isola negli Stati Uniti, che si è dimessa dal suo ruolo per partecipare alle elezioni. La decisione del candidato del Partito progressista democratico (Dpp) e vice della presidente in carica, Tsai Ing-wen, annunciata lunedì, è stata ben accolta dai vertici del partito, che giudicano i due leader una “coppia perfetta” per assicurare al Dpp un terzo mandato consecutivo al potere. Per Pechino però la cinquantaduenne Hsiao è una “secessionista irriducibile”, per questo motivo sanzionata due volte dal governo cinese.
Madre statunitense e padre taiwanese, un master in scienze politiche alla Columbia University, ex deputata dello Yuan legislativo, rappresentante di Taiwan negli Stati Uniti dal luglio 2020, Hsiao ha avuto un ruolo centrale nel rafforzamento degli ultimi anni delle relazioni bilaterali (non ufficiali) tra Taipei e Washington e nell’accesso da parte di Taiwan a sistemi di armamento statunitensi sempre più moderni. Hsiao Bi-khim è considerata vicinissima a Tsai, della quale è stata portavoce, e vanta un’amicizia decennale sia con il neoconservatore ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, John Bolton, che con il democratico Kurt Campbell, vice segretario di stato di Biden con delega all’Asia-Pacifico.
La scelta della sua vice da parte di William Lai (considerato più “indipendentista” di Tsai) evidenzia la volontà da parte dei vertici del Dpp di giocarsi in campagna elettorale - per la terza volta consecutiva - la carta dello spauracchio cinese. «Il mondo vuole sapere se i taiwanesi scelgono di fidarsi di Taiwan e di portare avanti il suo percorso democratico o di fare affidamento sulla Cina, adottare una posizione pro-Cina per ritornare a essere più legati alla Cina», ha dichiarato il candidato del Dpp. E, a proposito di Hsiao, ha aggiunto che «Taiwan ha bisogno di una leader ferma ed esperta, per continuare a promuovere la democrazia, la pace e la prosperità piuttosto che perseguire un sistema politico sperimentale».
Questa volta però i taiwanesi - dopo che le tensioni con Pechino degli ultimi anni non hanno portato nulla di buono all’isola - potrebbero dare ascolto all’altra campana, quella che promette una distensione con la Cina. Tutto dipenderà dall’opposizione, che aveva annunciato un accordo per selezionare un candidato comune, che avrebbe dovuto essere presentato venerdì scorso e che invece è saltato all’ultimo momento, ufficialmente per un disaccordo “tecnico”, relativo alle modalità di calcolo su quale candidato avrebbe le maggiori chances di successo. Sta di fatto che domani è l’ultimo giorno utile per la presentazione delle liste, e c’è grande attesa per scoprire se alla fine i nazionalisti del Kuomintang (Kmt) troveranno un’intesa con il Partito del popolo (Tpp), mediata dall’indipendente Terry Gou, patron del colosso dell’elettronica Foxconn.
In base alle ultime rilevazioni, un’intesa tra Hou You-yi (Kmt) e You Ben-jie (Tpp) segnerebbe una svolta, consegnando il governo a un’inedita alleanza Kmt-Tpp dopo otto anni di governo del Dpp.
E su Taiwan non c’è stato alcun accordo tra Xi Jinping e Joe Biden durante l’incontro che i due presidenti hanno avuto a San Francisco lo scorso 15 novembre. Xi ha chiesto direttamente a Biden di sospendere le sempre più massicce forniture militari Usa all’isola, descrivendola come l’hotspot più pericoloso per le relazioni Cina-Usa, ma Biden si è limitato a rispondere che la politica della sua amministrazione non è cambiata rispetto a quella che gli Usa seguono ufficialmente dal 1979, ovvero “prendere atto” che c’è una sola Cina e fornire a Taiwan armamenti a scopo difensivo. Il comunicato cinese ha però sottolineato in un passaggio le aspettative su quella che Pechino considera la questione più importante delle relazioni bilaterali Cina-Usa: «La Cina ha interessi che devono essere salvaguardati, princìpi che devono essere difesi e linee di fondo che devono essere rispettate».
Cui Tiankai, ambasciatore cinese a Washington dal 2013 al 2021, ha spiegato in un’intervista alla viglia del vertice Xi-Biden che esistono dei “limiti” alle “provocazioni” che la Cina può sostenere su Taiwan. Secondo Cui:
Tutto si può negoziare, ma questa (Taiwan) è una questione di vita o di morte per tutti i cinesi. Dobbiamo quindi essere pronti a fare qualsiasi cosa per difendere la nostra sovranità nazionale. La questione di Taiwan è una questione di sovranità nazionale, integrità territoriale e unità nazionale. Quindi questa è una sorta di questione di vita o di morte per la Cina… non c’è spazio per concessioni.
Primo discorso di Xi Jinping su Gaza: tregua subito, due stati unica soluzione
Nel suo primo intervento sulla crisi di Gaza, Xi Jinping ha chiesto un immediato cessate il fuoco, e ha invitato Israele a fermare le “punizioni collettive” contro la popolazione di Gaza e Hamas a rilasciare gli ostaggi nelle sue mani dal 7 ottobre scorso. L’appello di Xi è arrivato l’altro ieri, durante un incontro online ad hoc dei leader dei paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che hanno chiesto unitamente una tregua prolungata per alleviare le sofferenze della popolazione civile. Il presidente ha affermato che «la Cina sostiene la creazione di uno stato palestinese indipendente». E ha annunciato l’invio a Gaza di 4 milioni di dollari di forniture alimentari e sanitarie. Anche su Gaza, Pechino marca le distanze dagli Usa, punta ad assumere la guida del Sud globale, e a entrare in un futuro negoziato, anche per tutelare i suoi interessi crescenti in Medio Oriente.
Lunedì e martedì è stata ricevuta a Pechino una delegazione di diplomatici sauditi, giordani, egiziani, indonesiani, dell’Autorità palestinese e dell’Organizzazione per la cooperazione islamica. Resta il fatto che - in attesa che nella comunità internazionale si torni a discutere della soluzione del conflitto israelo-palestinese - con la guerra in corso a Gaza la Cina non ha un ruolo da protagonista nel negoziato tra le parti in conflitto (anche se sta esercitando una importante “moral suasion” sull’Iran, per impedire un intervento di Tehran attraverso i suoi proxy nella regione). Il rilascio, annunciato ieri, di una cinquantina di ostaggi (bambini e donne) da parte di Hamas in cambio di una tregua umanitaria di quattro giorni e della liberazione di circa 250 prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane è stato infatti trattato nelle scorse settimane da Stati Uniti, Qatar, Israele, Hamas ed Egitto.
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China: Central Bank Swaps to Argentina, 2014 Vincent Arnold
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