Il mito della "Moskvitch" rivive made in China
Boom dell'export e assemblaggio negli impianti abbandonati dalle compagnie occidentali: così Pechino conquista il mercato dell'auto russo
Buongiorno da Shanghai,
l’altro ieri la Casa Bianca ha comunicato che Xi Jinping e Joe Biden si vedranno a margine del vertice della Asia-Pacific Economic Cooperation (Apec) che si svolgerà a San Francisco dall’11 al 17 novembre. Da Pechino ancora nessuna conferma ufficiale, ma è chiaro che - a meno di clamorose sorprese - i due capi di stato si incontreranno di nuovo, a un anno di distanza dal G20 di Bali, e lo faranno con il comune intento di gettare un po’ di acqua sui fuochi di Taiwan, del Mar cinese meridionale, dell’accanita competizione tecnologica e della guerra commerciale. Non c’è tuttavia da attendersi alcuna svolta. Negli ultimi anni i disaccordi tra le prime due economie del pianeta si sono approfonditi, e la strategia dell’amministrazione Biden punta a negare alla Cina l’accesso alle tecnologie più avanzate e a frenare l’ascesa di Pechino nell’Asia-Pacifico.
Automotive e grano, tra Cina e Russia è boom di scambi
Nei primi tre trimestri di quest’anno, le esportazioni di auto cinesi in Russia sono aumentate di sei volte rispetto a gennaio-settembre 2022, per un valore di 4,6 miliardi di dollari. Il ritiro - per effetto delle sanzioni internazionali - di colossi come Mercedes, Renault e Nissan ha aperto ai produttori cinesi praterie nel mercato del paese confinante. Con un testimonial d’eccezione: Vladimir Putin, il presidente russo, che in un’intervista alla vigilia del III Belt and Road Forum di Pechino ha garantito sulla «qualità delle macchine cinesi, che sta migliorando continuamente». Mentre Li Qiang ha discusso della cooperazione nel settore automobilistico con il suo omologo russo, Mikhail Mishustin, durante l’incontro tra i due premier del 25 ottobre in Kigrghizistan. E Mosca ha limitato ai produttori nazionali e a quelli cinesi la possibilità di ottenere appalti governativi per la fornitura di nuove auto.
A fare da apripista è stata Great Wall Motor, che ha investito 500 milioni di dollari nell’impianto di Tula (a sud di Mosca) nel quale, dal 2019, produce il suo Suv “Haval”. In totale, 19 marchi cinesi sono entrati nel mercato russo, con Chery in testa per vendite totali, seguita da Great Wall Motor e Geely. La cooperazione con la Cina sta permettendo alla Russia di mantenere l’occupazione in un settore che, altrimenti, sarebbe stato messo in ginocchio dalle sanzioni. E perfino di rilanciare un marchio simbolo dell’industrializzazione staliniana, la “Moskvitch”, nata nel 1946 e oggi assemblata nello stabilimento moscovita abbandonato da Renault utilizzando componenti “made in China”, della JAC Motors. Secondo la Reuters, sei impianti russi nei quali producevano marchi statunitensi, europei e giapponesi sarebbero attualmente utilizzati da brand cinesi.
Secondo Autostat «grazie alla Cina, il mercato automobilistico russo, nonostante le sanzioni, non è rimasto senza novità: letteralmente ogni mese debuttano qui nuovi modelli di marchi cinesi». La società di consulenza russa ha previsto, per gli ultimi cinque mesi del 2023, l’ingresso nel mercato di 46 nuovi modelli (di cui 13 veicoli elettrici) di 20 marchi cinesi. Le auto importate dalla Cina erano solo il 7% del mercato russo nel giugno 2021, ora hanno superato il 50%. In definitiva quello dell’automotive è uno dei settori in maggiore espansione della “partnership strategica onnicomprensiva” ulteriormente rafforzata in occasione della visita di Xi a Mosca nel marzo 2023. Quest’anno i due paesi puntano a portare il commercio bilaterale a 200 miliardi di dollari, da 190 miliardi di dollari nel 2022.
Nelle prossime settimane sarà ufficializzato l’accordo in base al quale, nei prossimi 12 anni, la Russia fornirà alla Cina 70 milioni di tonnellate di grano e legumi (per un valore di 26 miliardi di dollari), attraverso il Nuovo corridoio del grano terrestre. Con l’invasione dell’Ucraina che ha ridotto le spedizioni di grano di Kiev, la Russia ha rafforzato la sua posizione di primo esportatore di grano al mondo: circa 47 milioni di tonnellate nel 2022-2023.
Le esportazioni russe di materie prime energetiche verso la Cina quest'anno sono cresciute del 17% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, ha affermato il vice primo ministro russo Alexander Novak al forum sull’energia che si è svolto a Pechino il 19 ottobre scorso. Eppure, durante l’ultimo incontro tra Xi e Putin (il quarantaduesimo in dieci anni), il 18 ottobre scorso, in occasione del forum sulla Belt and Road Initiative di Pechino, non è stato siglato alcun accordo su “Power of Siberia 2”, il gasdotto di 2.600 chilometri che dovrebbe portare 50 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla regione di Yamal, nel nord della Russia, in Cina, attraverso la Mongolia. La vice primo ministro Viktoria Abramchenko il mese scorso aveva sostenuto che la costruzione della tratta mongola dell’opera, la “Soyuz Vostok”, potrebbe iniziare nella prima metà del prossimo anno. Ma a Pechino il presidente cinese si è limitato a comunicare suo omologo russo che spera che “Power of Siberia 2” possa far registrare progressi quanto prima, senza siglare però alcuna intesa a riguardo.
“Power of Siberia 2” permetterebbe di esportare il Cina all’incirca lo stesso quantitativo di gas naturale che la Russia spediva in Europa attraverso Nord Stream 1, distrutto dal sabotaggio del 26 settembre 2022. Ma l’opera è sempre più in forse, perché non c’è accordo con i cinesi sul prezzo (la Cina non ha bisogno di altro gas naturale fino al 2030) e perché ci sono dubbi anche in Russia, dal momento che l’opera (che a Mosca costerebbe oltre 13 miliardi di dollari) renderebbe il paese ancora più dipendente dalla Cina. La Russia attualmente esporta gas in Cina attraverso il gasdotto Power of Siberia 1, che ha iniziato a funzionare nel 2019 e attraversa la Siberia orientale fino alla provincia cinese nordorientale di Heilongjiang.
Cosa prevede l’accordo di libero scambio Cina-Serbia
Il 17 ottobre 2023, Cina e Serbia hanno firmato a Pechino un accordo di libero scambio che prevede l’eliminazione dei dazi fino al 90 per cento. L’accordo è stato siglato dal ministro del Commercio cinese, Wang Wentao, e dal suo omologo serbo, Tomislav Momirovic, alla presenza del presidente cinese Xi Jinping e del presidente serbo Aleksandar Vucic. Si tratta del primo accordo di libero scambio stipulato da Pechino con un paese dell’Europa orientale e del quarto con un paese europeo dopo Svizzera, Islanda e Georgia, e rappresenta il 22° accordo di questo genere firmato dalla Cina. Cina e Serbia hanno negoziato l’accordo in oltre 30 incontri, per definire le procedure di esenzione dai dazi per 10.412 prodotti serbi e 8.930 prodotti cinesi.
Sono state firmate anche altre intese relative alla collaborazione industriale e agli investimenti, inclusi progetti infrastrutturali, come la realizzazione di 300 chilometri di autostrade per un valore di 4 miliardi di dollari. In particolare, il produttore cinese di ferrovie, China Railway Rolling Stock Corporation (CRRC), ha siglato un accordo con il Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture serbo per la vendita di 20 vagoni ferroviari ad alta velocità, segnando il primo progetto che porterà treni cinesi ad alta velocità in Europa. Secondo i dati delle dogane cinesi, il commercio bilaterale con la Serbia ha raggiunto i 2,1 miliardi di dollari nella prima metà del 2023, registrando un aumento del 14,8 per cento anno su anno e posizionando la Cina come secondo partner commerciale della Serbia, dopo l'Unione europea.
He Lifeng nominato a capo della Commissione centrale economico-finanziaria del Partito comunista cinese
Il vice premier He Lifeng è stato nominato direttore della Commissione centrale per gli affari economico-finanziari del Partito comunista cinese. Si tratta di uno degli organismi (presieduto da Xi Jinping) tra i più importanti del Pcc, perché a esso è affidata la supervisione delle politiche economiche, finanziarie e delle relazioni commerciali con gli Stati Uniti. Il sessantottenne He Lifeng è subentrato ufficialmente (il 29 ottobre scorso) alla guida della Commissione al posto del settantunenne Liu He, uno dei più ascoltati consiglieri economici di Xi. A differenza del suo predecessore - un economista che ha studiato ad Harvard e che ha consuetudine con l’establishment internazionale - He Lifeng non parla inglese.
He Lifeng - membro dell’ufficio politico del partito e numero 17 della nomenklatura comunista - sarebbe stato anche posto a capo (non c’è ancora l’ufficialità) della nuova commissione centrale finanziaria, l’organismo creato nel marzo scorso per rafforzare il controllo del Pcc sul sistema finanziario in una fase che si annuncia molto delicata, per gli effetti concomitanti della crisi del settore immobiliare, il massiccio indebitamento dei governi locali e le tensioni geopolitiche.
Il 30-31 ottobre si è svola a Pechino la quinquennale conferenza centrale sul lavoro finanziario (qui il comunicato finale), alla presenza dei sette membri del comitato permanente dell’ufficio politico del Pcc e di He Lifeng. Durante il consesso, Xi ha tracciato l’obiettivo del rafforzamento del controllo del partito comunista sul sistema finanzairio:
La Cina deve rafforzare in modo globale la vigilanza finanziaria e tenere sotto controllo tutte le attività finanziarie in conformità con la legge. Dobbiamo essere profondamente consapevoli che varie contraddizioni e problemi nel campo finanziario si intrecciano e si influenzano a vicenda, e alcuni sono molto evidenti. […] La supervisione finanziaria e le capacità di governance sono deboli. Il sistema finanziario deve effettivamente migliorare la propria posizione politica… ed essere determinato a risolvere radicalmente questi problemi.
Rapporto deficit/Pil al 3,8%, un inedito “mini bazooka” per ridurre i debiti dei governi locali e sostenere i consumatori
Martedì 24 ottobre il governo di Pechino ha annunciato una revisione di budget che porterà il rapporto deficit/prodotto interno lordo al 3,8% (in luogo del 3% indicato in precedenza). La Cina emetterà, entro la fine del 2023, titoli del debito pubblico per 137 miliardi di dollari. Un “piccolo bazooka”, uno stimolo fiscale limitato per provare a ridare slancio a un’economia rallentata dai consumi stagnanti e dalle incertezze legate alla crisi del settore immobiliare. La novità - che potrebbe essere una una tantum, oppure segnalare un approccio più flessibile alla politica fiscale - non sta tanto nell’entità, relativamente limitata, della misura adottata, quanto nella strada intrapresa. Infatti negli ultimi anni erano state le autorità locali - soprattutto attraverso progetti immobiliari - ad aumentare la spesa. Ora invece si è mosso il governo centrale.
La mossa del governo di Pechino punta a un duplice obiettivo.
Anzitutto - in una fase di forte rallentamento dei progetti immobiliari che per decenni hanno garantito loro entrate abbondanti - c’è la necessità di ridurre gli esorbitanti debiti dei governi locali (oltre 10.000 miliardi di dollari). A tal fine, il mese scorso Pechino ha anche lanciato una iniziativa (1.000 miliardi di yuan) che consente ai governi locali di scambiare debito ad alto interesse con titoli di stato a basso interesse. Inoltre l’aumento di spesa va nella direzione di favorire i consumi interni rimettendo un po’ di denaro nelle tasche dei dipendenti pubblici. In Cina ci sono 80 milioni di dipendenti pubblici e numerose imprese statali che attendono un aumento salariale.
Fang Fenglei - fondatore e presidente di Hopu Investment Management e presidente di Chairman of Goldman Sachs Gaohua Securities - ha sostenuto che, se il processo inizierà da ora, la transizione della Cina da un’economia incentrata sull’industria a una incentrata sui consumi richiederà un decennio. «La Cina era abituata a svalutare l’aumento del potere di consumo dei contadini e dei consumatori comuni, perché negli ultimi decenni ha dovuto concentrarsi sullo sviluppo - ha affermato Fang -. Ora che il Pil pro capite ha raggiunto i 13.000 dollari, deve essere risolta la questione fondamentale dell’aumento dei livelli di reddito». Fang ha sostenuto che il governo sta affrontando anche i problemi del settore immobiliare, i debiti dei governi locali e i debiti delle banche di piccole e medie dimensioni.
«La direzione è molto chiara: aumentare gli alloggi a prezzi accessibili per i cittadini», ha affermato, sottolineando che il governo di Singapore fornisce l’80% degli alloggi a prezzi accessibili, mentre in Cina il governo ne fornisce il 20%. «Anche se questo problema è meno grave per la Cina che per il Giappone alla fine degli anni Novanta o per gli Stati Uniti - ha aggiunto Fang -, ci sono comunque 300 milioni di cinesi che aspettano di acquistare la loro prima casa nei prossimi tre-cinque anni».
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