L'ambasciatore Usa: neghiamo a Pechino la tecnologia per perpetuare la nostra egemonia
Secondo Nicholas Burns gli Stati Uniti si stanno rafforzando e continueranno a dettare legge nel Pacifico grazie alla loro superiorità militare
La “rivalità sistemica” tra Cina e Stati Uniti proseguirà almeno fino alla fine del prossimo decennio e la loro competizione sarà sempre più incentrata sulla tecnologia e sulle forze armate. A sostenerlo è Nicholas Burns, che ha definito “molto serio” il confronto tra i due paesi. L’ambasciatore Usa a Pechino ha ricordato che gli Stati Uniti sono, in particolare dalla fine della Seconda guerra mondiale, una superpotenza del Pacifico, nel quale tuttavia «è in corso una competizione per il potere e l’influenza militare».
Secondo Burns - che ha espresso le sue considerazioni durante un seminario organizzato venerdì 15 marzo dallo East-West Centre - il «cuore di questa battaglia» è la tecnologia, che non soltanto ridisegnerà l’economia globale, ma - attraverso le applicazioni in ambito militare - «determinerà il futuro equilibrio di potere».
Burns ha sottolineato che il presidente Joe Biden sta agendo «con grande determinazione» per limitare l’accesso della Cina alle tecnologie Usa più avanzate e ai semiconduttori più performanti, quelli utilizzati nell’intelligenza artificiale.
Il 6 marzo scorso Bloomberg ha rivelato che l’amministrazione Biden sta facendo pressioni su Olanda, Germania, Giappone e Corea del Sud per impedire che questi paesi forniscano alla Cina una serie di materiali essenziali per la fabbricazione di microchip, nonché l’assistenza sulle apparecchiature per la produzione di semiconduttori. Sempre secondo Bloomberg, sia Tokyo che l’Aia vogliono valutare l’impatto dei divieti già in vigore prima di procedere eventualmente con un ulteriore giro di vite.
Il 1° gennaio scorso sono scattate le restrizioni imposte dal governo olandese (su richiesta dell’amministrazione Biden) sulle vendite dei macchinari per litografia a raggi ultravioletti profondi (Duv) della compagnia ASML.
In sostanza contro Pechino l’amministrazione Biden sta cercando di attuare un vero e proprio embargo hi-tech (ufficialmente per impedire l’avanzamento tecnologico dell’Esercito popolare di liberazione), nonostante le resistenze da parte delle multinazionali del settore, per le quali la Cina è un ottimo cliente.
In questa strategia complessa e di dubbia efficacia (tra gli effetti immediati della quale va registrata l’accelerazione della ricerca hi-tech in Cina) rientra anche lo spostamento negli Stati Uniti, in Giappone e in Germania di parte della produzione avanzata della taiwanese TSMC, che manterrà nella Repubblica popolare cinese solo impianti che sfornano microchip meno potenti.
Burns ha inoltre affermato che il vertice del 15 novembre scorso tra Biden e il suo omologo Xi Jinping ha portato a «una relazione relativamente più stabile» tra Pechino e Washington. Anche il ministro degli esteri Wang Yi aveva parlato di “alcuni miglioramenti” dopo l’incontro di San Francisco tra i due presidenti.
Secondo Burns, il faccia a faccia tra i due capi di stato:
«Non ha risolto molte delle differenze in sospeso su questioni importanti ma… ha confermato il giudizio di entrambi i paesi secondo cui… siamo concorrenti.
È molto importante avere comunicazioni costanti. Questo rapporto rimane altamente competitivo. Molto probabilmente saremo rivali sistemici anche nel prossimo decennio. È molto importante gestire le differenze tra di noi in modo responsabile».
L’ambasciatore ha respinto l’dea secondo cui gli Stati Uniti sarebbero in declino:
«Non siamo d’accordo con coloro che, nella leadership cinese, affermano che l’Oriente è in crescita e l’Occidente in declino. Non è così che vediamo la nostra posizione di potere nell’Indo-Pacifico. Non è proprio possibile che qualcuno possa avanzare l’idea che in qualche modo gli Stati Uniti siano in declino. Ci stiamo rafforzando strategicamente, militarmente ed economicamente».
E sulle recenti tensioni tra Pechino e Manila Burns ha dichiarato:
«Vogliamo vedere ovviamente la pace prevalere e vogliamo vedere la Cina cessare le sue azioni provocatorie. Ci auguriamo vivamente che i prossimi mesi siano più tranquilli, ma siamo stati molto decisi e molto chiari riguardo al nostro sostegno alle Filippine».
In un’intervista a South China Morning Post, il professor Li Cheng - fondatore e direttore del Centre on Contemporary China and the World dell’Università di Hong Kong - ha spiegato così il problema - che definisce “strutturale” - tra Cina e Stati Uniti la cui rivalità, secondo l’accademico, andrà avanti almeno per i prossimi 10-15 anni:
«Ciò che intendo per problema strutturale si riferisce a tre cose. Innanzitutto, gli Stati Uniti non hanno mai, dalla fine della Seconda guerra mondiale, affrontato una rivalità così ampia e a tutto tondo come quella cinese. La sfida della Cina comprende il suo potere economico, militare, scientifico e tecnologico, e – sostiene l’ambasciatore (Burns, ndr) – anche il suo potere ideologico o addirittura politico. Alcuni negli Stati Uniti parlano addirittura di sfida culturale. Anche se non sono d’accordo con l’aspetto culturale o ideologico, si tratta comunque di una sfida molto ampia.
Quindi questa è, usando il termine occidentale, la trappola di Tucidide: tensioni che coinvolgono una potenza emergente e una potenza esistente. La tensione non scomparirà così rapidamente, quindi resterà con noi per molto tempo finché entrambi i paesi – soprattutto gli Stati Uniti – non riconosceranno che non c’è modo di sconfiggere la Cina.
Ora, la seconda ragione sono le questioni interne degli Stati Uniti. Se gli Stati Uniti sono in buona forma – se il sistema politico americano, l’economia, la società, la cultura politica e molte altre cose sono in buona forma – allora non ci interessa il diverso sistema politico cinese, la diversa ideologia, il diverso modello economico.
Ma ciò che è accaduto negli Stati Uniti in termini di divisioni feroci rende il diverso modello economico, il diverso sistema politico e la diversa ideologia della Cina ancora più esagerati e sensibili. E anche questo non scomparirà rapidamente.
In terzo luogo, in modo più sostanziale, c’è l’ascesa della classe media negli ultimi tre decenni in Cina, che da inesistente è diventata la classe media più numerosa. La classe media americana si è ridotta dal 70 per cento dopo la seconda guerra mondiale all’attuale 50 per cento circa, il che ha creato di fatto un’altra dimensione del problema strutturale.
Non necessariamente gli americani ritengono che la classe media cinese stia mangiando il loro pranzo, ma la classe media americana, o in particolare la classe medio-bassa, non ha beneficiato della globalizzazione economica. Quindi vedono che l’avanzamento della Cina è a spese degli Stati Uniti e questo spiega perché la promessa di Biden di abolire i dazi non ha mai funzionato, perché la classe operaia americana non sostiene quella politica».