Lo stato di salute delle aziende italiane in Cina; Apple e le altre big hi-tech si spostano in India; le contromisure di Pechino per non farsi isolare
Decoupling, de-risking, reshoring, friendshoring: con le politiche per frenare l'ascesa tecnologica della Cina le multinazionali Usa e gli altri paesi asiatici riscrivono la globalizzazione
La produzione di telefoni cellulari, computer e microchip - beni che, negli ultimi decenni, hanno rappresentato una parte fondamentale dell’industria di trasformazione delle multinazionali in Cina - rallenta e si appresta a migrare verso altri paesi asiatici.
La conferma di questa tendenza arriva dagli ultimi dati doganali, secondo i quali nel primo trimestre 2023 le esportazioni dalla Cina delle aziende straniere sono diminuite del 16,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Sono calate anche le spedizioni delle grandi compagnie che in Cina fabbricano smartphone, computer e circuiti integrati, nonostante l’incremento registrato nel complesso dell’export dal paese (+0,5% nei primi tre mesi di quest’anno e +14,8% il mese scorso).
Il valore dei telefoni cellulari assemblati in Cina per il mercato internazionale è sceso del 31,9% a marzo: 8,48 miliardi di dollari, il più basso degli ultimi 19 mesi. Il colosso taiwanese Foxconn - protagonista assoluto del settore in Cina, dove assembla smartphone per Apple - dopo le interruzioni della catena di approvvigionamento e gli scioperi operai nel suo mega impianto nella metropoli di Zhengzhou durante l’epidemia di Covid-19, ha accelerato il trasferimento della produzione di iPhone dalla Cina (l’85% nel 2022) in India. Il quotidiano indiano Economic Times ha rivelato che per questo mese è atteso l’avvio della costruzione di un grande fabbrica Foxconn destinata alla produzione di iPhone nei pressi dell’aeroporto internazionale di Bangalore, che dovrebbe dare lavoro a circa 50.000 persone nei prossimi cinque anni.
Le stime di JPMorgan prevedono che la produzione indiana di iPhone balzerà dall’attuale 7% al 25% nel 2025, mentre secondo quelle di DigiTimes Research, nel 2027 l’assemblaggio degli smartphone di Apple sarà localizzato per metà in India e per metà in Cina. Samsung si è mossa già dal 2019, spostando la produzione in Vietnam. Secondo uno studio di DigiTimes, le fabbriche di smartphone Samsung lasceranno la Cina nei prossimi cinque anni, con la quota di lavoro e assemblaggio in Vietnam e in India che si avvicinerà rispettivamente al 35%-40% e al 40%-45% entro il 2027.
Sempre il mese scorso anche il valore delle esportazioni di computer dalla Cina è diminuito (per l’ottavo mese consecutivo), del 25,9% su base annua.
Crescita meno negativa quella del valore dell’export di circuiti integrati (-2,2% rispetto all’anno precedente), nono calo mensile consecutivo. In questo settore i maggiori produttori - a cominciare dalla taiwanese Tsmc - si stanno adeguando all’embargo hi-tech dell’amministrazione Biden contro la Cina, anche costruendo impianti negli Stati Uniti e in Giappone, come raccontato nelle precedenti newsletter di Rassegna Cina.
Nonostante una grande economia manifatturiera e dipendente dall’export come quella tedesca continui ad affermare la sua presenza in Cina (nel 2022 gli investimenti della Germania hanno raggiunto il record di 11,5 miliardi di euro), e la seconda economia europea abbia, con il recente viaggio a Pechino del presidente Emmanuel Macron, ribadito la sua fiducia nelle prospettive della Cina, gli economisti e gli analisti cinesi concordano che questa tendenza al trasferimento di produzione da quella che da quarant’anni è la “fabbrica del mondo” avrà un impatto profondo sull’economia cinese.
A Pechino ritengono che siano due le caratteristiche principali di questo trasferimento: sarà parziale (solo una minoranza di compagnie lascerà la Cina), ma inevitabile (a determinarlo sono forze irrefrenabili). Solo una parte della manifattura straniera - soprattutto i settori dell’elettronica e dei semiconduttori - farà le valige. E saranno anzitutto le compagnie statunitensi ad andarsene.
Anche l’imprenditoria italiana in Cina si sta preparando a grandi cambiamenti, come testimonia il quarto sondaggio sullo stato di salute delle aziende italiane in Cina condotto a marzo dalla Camera di commercio italiana in Cina (Ccic) e pubblicato il mese scorso. Nel messaggio che introduce il sondaggio (disponibile integralmente per i soci sul sito internet della Ccic), il presidente, Paolo Bazzoni, parla di «revisione delle decisioni di allocazione di nuove risorse con una diversificazione del rischio Paese verso aree limitrofe», soprattutto i dieci paesi dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean). Bazzoni chiarisce che la Cina rimane «tuttora un mercato molto importante per la maggioranza delle nostre aziende e dei gruppi di riferimento», ma che «non è più la sola e unica fonte di crescita ed espansione. Oggi si guarda anche altrove, senza però disinvestire, mantenendo il focus su qualità, efficienza e innovazione».
Il documento della Ccic sottolinea che, nonostante l’esperienza delle chiusure anti-Covid (particolarmente dure a Shanghai nella primavera 2022) e l’aumento dei costi, il 67% delle compagnie italiane in Cina non ha attuato modifiche alla “supply chain” e non sta considerando alcuna ristrutturazione, il 26% ha deciso di localizzare parzialmente o totalmente la catena di approvvigionamento, mentre il 6% ha preferito diversificare servendosi dei Paesi Asean a supporto del mercato cinese.
La Camera di commercio italiana in Cina guarda al futuro con “cauto ottimismo”. Infatti, secondo lo studio della Ccic, il 70% delle aziende associate prevede un aumento delle entrate nel 2023, rispetto al 2022, e per oltre il 42% l’incremento previsto è superiore al 20%.
Prudente è anche l’atteggiamento verso gli investimenti futuri nel breve termine: il 35% delle compagnie intervistate giudica prematuro prevedere cambi di strategia; il 28% porta avanti investimenti iniziati; mentre il 25% ha posticipato, diminuito o cancellato i propri investimenti in Cina.
Detto questo - conclude il rapporto della Camera - la Cina continua a essere nel breve termine “the place to be” per più della metà delle nostre aziende localizzate (57%). Il 24% è ancora incerto, mentre il 19% ha deciso di diversificare: tra questi circa il 13% punta ad altri mercati, Asean e non, per ulteriori investimenti. Solo il 3% ha deciso di uscire dal mercato cinese.
Per oltre il 60% delle imprese italiane in Cina, il mercato cinese continua, nonostante tutto, a essere visto come terreno fertile per la crescita del business nel proprio settore di appartenenza e il più grande mercato al mondo dotato di un ambiente di business dinamico. Il sondaggio della Ccic invita tuttavia a «non sottovalutare la posizione del 17% delle nostre imprese, per le quali la Cina non rappresenta più il primo mercato per importanza. Nessun esodo di massa dalla Cina, ma una crescente tendenza ad avere più opzioni per minimizzare i rischi».
Nel complesso le multinazionali straniere stanno adottando le strategie “In Cina per la Cina” ovvero produrre in Cina esclusivamente beni destinati al consumo locale; e/o “Cina +1”, cioè diversificare la produzione destinata ai mercati internazionali in un’altra aerea.
In questo nuovo quadro si sono ritagliati un ruolo di primo piano i dieci paesi dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean), verso i quali il mese scorso le esportazioni dalla Cina sono aumentate del 35,43% rispetto allo stesso periodo del 2022 (nello stesso periodo quelle in direzione degli Usa sono calate per l’ottavo mese consecutivo, del 7,68%).
Una crescita impetuosa trainata anche dalle mosse delle multinazionali straniere, ma soprattutto dal tentativo da parte delle compagnie cinesi di aggirare la barriera dei dazi statunitensi. Huang Qifan, ex sindaco di Chongqing, ha dichiarato mercoledì scorso durante un forum a Guangzhou che il volume degli scambi commerciali della Cina con la regione dell’Asean è aumentato del 50% negli ultimi tre anni.
«La principale fonte di investimenti esteri nel Sud-est asiatico sono le società cinesi. Le aziende cinesi assemblano i prodotti lì e poi li vendono al resto del mondo. Le parti e le materie prime sono tutte importate dalla Cina - ha rivelato Huang -. Questa è una buona cosa per il mondo. Anche il nostro rapporto con il Sud-est asiatico è diventato più stretto, così come quello tra il Sud-est asiatico e gli Stati Uniti. È vantaggioso per tutti, i costi di tutti sono stati ridotti. Perché no?».
Sono tre i fattori principali che hanno reso irreversibile e che alimentano questo trend: le tensioni geopolitiche; le conseguenze delle politiche anti-Covid di Pechino; l’aumento dei costi in Cina. A tal proposito è interessante la valutazione di Gu Wenjun, analista di ICwise, pubblicata su Caixin.
La prima pressione deriva dalla spinta del governo degli Stati Uniti per la separazione (decoupling) dalla Cina. Sebbene altri paesi occidentali possano seguire l’esempio, i loro atteggiamenti sono molto meno risoluti. Alcuni stanno addirittura aumentando gli investimenti in Cina.
La seconda pressione è la ricaduta dell’interruzione delle catene di approvvigionamento globali durante la pandemia. L’Occidente aveva a lungo contemplato il decoupling dalla Cina, ma nessuno osava metterlo in atto. Tuttavia, questo scenario impensabile è diventato una realtà temporanea durante la pandemia. L’Occidente ha scoperto che il caos nelle catene di approvvigionamento globali non era la fine del mondo e le dure condizioni di pandemia hanno aumentato la tolleranza delle persone al disordine. Di conseguenza, la separazione dalla Cina è diventata un’opzione praticabile.
Infine, i costi di produzione in Cina sono aumentati. Negli ultimi anni, alcune aziende hanno scelto di andarsene a causa dell’incremento dei costi della manodopera e dei terreni nel paese, nonché della loro limitata quota di mercato.
Questi tre fattori si sono combinati, aprendo le porte alla separazione. C’è chi afferma che le tensioni Cina-Stati Uniti hanno dato vita a una guerra fredda. Anche se questa può essere un’esagerazione, è improbabile che le loro relazioni migliorino significativamente a breve termine, il che significa che le società straniere, in particolare quelle americane, continueranno a trasferirsi fuori dalla Cina nel prossimo futuro.
Il consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, la settimana scorsa è intervenuto sull’argomento, con il triplice obiettivo di “allineare” la retorica della politica di Washington sulla Cina con quella dell’Unione Europea; difendere le mosse dell’amministrazione Biden dalle accuse di protezionismo; rassicurare i paesi emergenti sull’impatto delle misure varate dagli Stati Uniti. Nelle sue Osservazioni sul rinnovamento della leadership economica americana esposte giovedì 27 aprile presso la Brookings Institution, Sullivan ha affermato: «Conveniamo con i principali leader europei che siamo per il de-risking e non per il decoupling» dall’economia cinese. Secondo Sullivan, «de-risking significa fondamentalmente avere catene di fornitura resilienti ed efficienti, e assicurarci di non essere soggetti alla coercizione di alcun paese».
Dunque riduzione dei rischi e non separazione. Poi però lo stesso consigliere di Biden ha ammesso: «Come si riduce il rischio in maniera efficace senza separarsi? Non esiste alcuna chiara formula matematica». Sullivan ha sostenuto che le misure varate da Washington «non sono, come dice Pechino, un blocco tecnologico. Non prendono di mira le economie emergenti. Si concentrano su una ristretta fetta di tecnologia e su un piccolo numero di paesi intenti a sfidarci militarmente». «Non stiamo tagliando il commercio - ha concluso il consigliere di Biden -. In effetti, gli Stati Uniti continuano ad avere relazioni commerciali e di investimento molto consistenti con la Cina».
Come che sia, gli Stati Uniti stanno invertendo i fattori che guidano i mercati globali: dall’efficienza e dal contenimento dei costi, alla stabilità e la sicurezza. Le mosse di Pechino per non farsi isolare nel commercio internazionale dalla strategia Usa di “reshoring” (riportare la manifattura nel paese d’origine della compagnia) e “friendshoring” (appaltarla soltanto in paesi amici) prevedono anche il tentativo d’accesso nell’area di libero scambio Comprensive and Progressive Agreement for Trans Pacific Partnership (Cptpp), alla quale la Cina ha presentato domanda d’ingresso nel settembre 2021.
La Cptpp è entrata in vigore nel dicembre 2018 e include Australia, Canada, Giappone, Cile, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Peru, Singapore, Vietnam e Brunei. Oltre a soddisfare standard elevati su diritti di proprietà e tutele del lavoro, l’adesione ufficiale della Cina al Cptpp richiederebbe l’approvazione di tutti e undici i paesi membri.
Intanto a Pechino il 28 aprile scorso si è svolta la prima delle tre riunioni annuali (aprile, luglio, dicembre) che i 24 leader dell’ufficio politico del partito comunista cinese dedicano all’economia e alle politiche economiche.
L’incontro è avvenuto dopo la pubblicazione dei dati del primo trimestre 2023, che hanno evidenziato una crescita del prodotto interno lordo del 4,5%. La riunione, presieduta dal presidente cinese, Xi Jinping, ha confermato un giudizio sostanzialmente positivo delle statistiche del periodo gennaio-marzo, soprattutto perché esse hanno evidenziato che «l’economia e la società cinese hanno ripreso completamente le normali attività» dopo che il paese ha abbandonato la sua politica “Covid-zero”, che ha contribuito alla sua seconda crescita economica più lenta degli ultimi quattro decenni nel 2022 (+3%).
Il resoconto ufficiale della riunione dell’ufficio politico, chiarisce che «l'economia cinese è tuttora in una fase di ripresa, con uno slancio interno ancora da rafforzare, una domanda insufficiente e nuovi venti contrari per l’aggiornamento e il miglioramento dell’economia. Secondo l’analisi della leadership di Pechino ci sono tuttora molte difficoltà e sfide nel perseguimento dell’obiettivo di uno sviluppo di “alta qualità”.
In particolare, nei settori scientifico e tecnologico è necessario rafforzare le fondamenta dell’agognata autosufficienza - che può permettere lo sviluppo in una fase di scambi molto meno aperti che in passato - nonché consolidare ed espandere i vantaggi nello sviluppo di veicoli a nuova energia.
Secondo l’ufficio politico, ripristinare ed espandere la domanda è la chiave per una ripresa economica sostenuta e, a tal fine, le politiche del partito punteranno ad aumentare il reddito dei residenti urbani e rurali attraverso più canali, e a incrementare i consumi in settori come la cultura e turismo.