Anti-coercizione e guerre commerciali, così l'Unione Europea vuole diventare una potenza geopolitica
La competizione con la Cina al centro dello Anti-Coercion Instrument e della strategia di "de-risking" della Commissione
Il 3 ottobre scorso il Parlamento europeo ha approvato in via definitiva con un’ampia maggioranza (578 voti favorevoli, 24 contrari e 19 astensioni) lo Anti-Coercion Instrument (Aci). Ufficialmente questo nuovo meccanismo (un regolamento, in quanto tale da applicare in tutti i suoi elementi nell’intera Ue) si propone di «proteggere la sovranità dell’Ue e degli stati membri in un ambiente geopolitico in cui il commercio e gli investimenti sono sempre più utilizzati come armi da potenze straniere». Come chiarito dal sito ufficiale dell’europarlamento, lo Aci era stato proposto due anni fa, «in risposta alle pressioni economiche esercitate dagli Stati Uniti durante l’amministrazione Trump e ai numerosi scontri tra l’Ue e la Cina».
Bruxelles ha congelato il Comprehensive Agreement on Investment (Cai) negoziato a lungo con la Cina dopo che, il 22 marzo 2021, Pechino aveva reagito con misure analoghe alle sanzioni varate dall’Unione europea contro funzionari e istituzioni cinesi per la repressione dei musulmani nella regione del Xinjiang. Nell’agosto di due anni fa la Lituania ha permesso l’apertura di un’ambasciata di fatto di Taiwan nella capitale Vilnius, venendo per questo motivo punita da Pechino con boicottaggi commerciali e sanzioni contro funzionari governativi.
Ora che si è dotata del nuovo meccanismo, «l’Ue potrà adottare contromisure, tra cui l’imposizione di dazi doganali, restrizioni commerciali su beni e servizi, sull’accesso agli appalti pubblici e agli investimenti diretti esteri». In linea di principio, lo Strumento anti-coercizione dell’Ue è un deterrente. Ciononostante vanno sottolineate alcune caratteristiche, che rendono innovativo, flessibile e potenzialmente incisivo questo strumento nelle mani della Commissione, che avrà quattro mesi per indagare sulla presunta coercizione, mentre la decisione se far scattare le contromisure spetterà (a maggioranza qualificata) al Consiglio, cioè ai governi nazionali:
la “maggioranza qualificata” prevista è di almeno 15 paesi dell’Ue con il 65% della popolazione dell’Unione, a differenza delle sanzioni, che sono molto più difficili da varare, perché i singoli governi dell’Ue hanno potere di veto;
chiunque può presentare alla Commissione una “denuncia” di coercizione economica, mentre nella prima bozza della legge questo potere di “impulso” era limitato agli stati membri: nel testo approvato le imprese (e i sindacati) possono dunque svolgere un ruolo importante in tutte le fasi di esame delle misure presuntivamente coercitive dei paesi terzi;
cosa debba intendersi per “coercizione” sembra piuttosto vago. Il regolamento approvato infatti stabilisce che l’esecutivo comunitario «dovrebbe tenere conto di criteri qualitativi o quantitativi che aiutino a determinare se il paese terzo interferisce nelle legittime scelte sovrane dell’Unione o di uno Stato membro e se la sua azione costituisce una coercizione economica che richiede una risposta dell’Unione».
Insomma uno strumento da maneggiare con cura che, ad esempio, se utilizzato contro la Cina di Xi Jinping - un paese nazionalista e primo partner commerciale di 120 paesi - potrebbe contribuire a innescare guerre commerciali. Conflitti dei quali già si sente il rullio dei tamburi. La Cina si è mossa a luglio per limitare le sue esportazioni di gallio e germanio, due metalli essenziali per la produzione di semiconduttori. E il 13 settembre scorso la Commissione europea ha avviato un’indagine sull’opportunità di imporre dazi punitivi per proteggere i produttori dell’Ue dalle importazioni di veicoli elettrici cinesi che, secondo Bruxelles, beneficiano di sussidi statali.
Come ha dichiarato il commissario europeo per il mercato interno, Thierry Breton, «l’Europa si sta adattando alle nuove realtà geopolitiche, ponendo fine all’era dell’ingenuità e agendo come una vera potenza geopolitica». Nella geopolitica post-Covid quelle che Pechino ha provato a difendere fino all’ultimo come relazioni “reciprocamente vantaggiose” stanno cedendo il passo alla competizione, al protezionismo, alla sfiducia reciproca.
Nello stesso giorno in cui l’Europarlamento ha approvato lo Aci, la Commissione ha reso pubbliche le aree al centro della sua strategia di “de-risking”. Anche se l’Ue sottolinea che non c’è alcun paese specifico dal quale intenda proteggersi, è vero esattamente il contrario, e cioè è deducibile dalla lista delle prime quattro aree nelle quali nei prossimi mesi Bruxelles condurrà una “valutazione di rischio”, tutte aree nella quale è forte la concorrenza cinese: semiconduttori avanzati, intelligenza artificiale, tecnologie quantistiche, biotecnologie. A seconda degli esiti di tale ricognizione, l’Unione potrebbe optare per controlli su determinate esportazioni hi-tech verso la Cina e collaborazioni con alleati come Stati Uniti e Australia che hanno messo in campo misure simili.
Secondo la commissaria per i valori e la trasparenza, Věra Jourová:
la tecnologia è attualmente al centro della competizione geopolitica e l’Ue vuole essere un attore e non un parco giochi, e per essere protagonisti abbiamo bisogno di una posizione unitaria dell’Ue, basata su una valutazione comune dei rischi.
L’obiettivo dichiarato dall’organismo presieduto da Ursula von der Leyen è duplice: da un lato provare ad affrancare l’Ue dalla Cina per quanto riguarda l’importazione di materie prime e manufatti “chiave”; dall’altro fermare il flusso di tecnologie “critiche” che potrebbero essere utilizzate dall’Esercito popolare di liberazione.
La strategia del cosiddetto “de-risking” ha però messo a nudo una serie di contraddizioni all’interno dell’Europa a 27: obiettivi diversi tra differenti settori industriali, tra i paesi più influenti e all’interno delle loro coalizioni di governo. Ad esempio, Olaf Scholz si è espresso contro l’indagine anti-dumping avviata dalla Commissione sull’importazione di veicoli elettrici made in China e quella che ha stigmatizzato come “via protezionistica”. «Il modello economico che preferisco è quello della concorrenza globale - ha dichiarato il cancelliere tedesco durante il Berlin Global Dialogue -. Vogliamo vendere le nostre auto in Europa, Nord America, Giappone, Cina, Africa, Sud America, ovunque, ma questo significa che siamo aperti a portare le auto di altri paesi anche sul mercato tedesco».
Il timore della Germania (che con la Cina, suo principale partner commerciale, nel 2022 ha registrato un interscambio pari a 298 miliardi di euro) è che l’indagine, fortemente voluta dalla Francia, dopo quella con gli Stati Uniti dichiarata da Trump, possa scatenare una trade war anche tra la Cina e l’Ue, della quale le case automobilistiche tedesche, con i loro colossali investimenti in Cina, potrebbero risultare tra le vittime principali.
Ma l’aumento dei dazi che potrebbe essere imposto sugli Ev cinesi è fumo negli occhi anche per la potente lobby SolarPower Europe, che ha bollato l’inchiesta Ue come “reciprocamente dannosa”, esortando le autorità comunitarie, invece che ad aumentare i dazi sulle importazioni dalla Cina, a sostenere la filiera europea dell’energia solare con gli stessi aiuti di stato che Bruxelles rimprovera a Pechino per il settore dell’automotive.
Lan Foan sarà il nuovo ministro delle finanze, si avvicina la svolta di una politica fiscale espansiva
Lan Foan, 61 anni, è stato nominato nuovo capo del partito presso il ministero delle finanze di Pechino, rimpiazzando Liu Kun, al quale presto succederà anche nel ruolo di ministro delle finanze. Lan sbarca a Pechino dalla provincia dallo Shaanxi, dove ricopriva l’incarico di segretario provinciale di partito, e ha servito in dipartimenti finanziari di livello locale e centrale.
Nel luglio scorso, il comitato centrale del partito comunista e il consiglio hanno varato un piano in 31 punti per Promuovere lo sviluppo e la crescita dell’economia privata. Da allora però si è aggravata la crisi del colosso Evergrande e dell’intero settore immobiliare, la quale a sua volta ha ridotto le entrate degli indebitatissimi governi locali, costretti a fare a meno di quelle derivanti dalla vendita dei terreni edificabili. Da allora, l’economia cinese ha mostrato segnali di ripresa. Per la prima volta da sei mesi, a settembre il Purchasing Manager Index manifatturiero (che misura l’espansione o la contrazione della produzione rispetto al mese precedente) è tornato in territorio positivo, salendo a 50,2 dal 49,7 registrato ad agosto dall’Ufficio nazionale di statistica (Nbs).
Un altro segnale di stabilizzazione è arrivato dai i profitti industriali, un importante indicatore sulle operazioni delle imprese di medie e grandi dimensioni, che, secondo i dati diffusi mercoledì 27 settembre dallo stesso Nbs, ad agosto sono aumentati del 17,2% rispetto all’anno precedente, mentre a luglio erano calati del 6,7% di luglio e, a marzo, crollati del 19,2%.
Sulla possibilità che queste cifre possano segnalare un continuo e stabile miglioramento dell’economia cinese c’è però grande prudenza, perché su una vera ripresa grava l’incognita della crisi del mercato immobiliare e dei debiti dei governi locali.
Secondo gli analisti cinesi, il cambiamento al vertice del ministero delle finanze indica che - probabilmente a partire dall’inizio del 2024 - il governo centrale varerà una politica più espansiva.
Secondo quanto dichiarato il 28 settembre scorso dalla portavoce del Fondo monetario internazionale (Fmi), Julie Kozack:
«I dati più recenti sono stati un po’ più contrastanti, con alcuni segnali di stabilizzazione. Ci aspettiamo che la crescita della Cina rallenterà a circa il 3,5% in un contesto di fattori demografici sfavorevoli e di rallentamento della crescita della produttività. Ma riteniamo anche che una crescita più elevata nel medio termine sia alla portata della Cina. La Cina dovrebbe cogliere l’opportunità di riequilibrare la propria economia attraverso il sostegno della politica macroeconomica a breve termine e riforme a medio termine».
La posizione del Fmi trova echi nelle idee dei riformisti che in Cina sostengono la necessità di riforme strutturali, che si contrappongono agli economisti e consulenti che invece spingono per un piano di stimolo incentrato sulla spesa pubblica, in grado di favorire il raggiungimento degli obiettivi di breve periodo del partito comunista, ovvero quel “circa 5%” di aumento del Più previsto dal premier Li Qiang, per mantenere una crescita relativamente sostenuta in una fase nella quale l’elevata disoccupazione giovanile (su cui Pechino ha smesso di pubblicare i dati) e il crollo del colosso immobiliare Evergrande si sommano al contenimento tecnologico messo in atto dai paese avanzati contro la Cina. Posizioni ben riassunte in questo articolo della Reuters.
I “riformisti” e i “conservatori” si confronteranno nella prossima Conferenza centrale di lavoro economico (che si svolgerà nel mese di dicembre), l’appuntamento annuale nel quale la leadership del partito comunista decide le politiche economiche da varare. Solo a quel punto potremo capire quale linea avrà prevalso, oppure se ad essere favorito sarà un mix di misure di stimolo e di riforme strutturali. Se la leadership del partito giudicherà il rallentamento dell’economia in grado di incidere negativamente sul “mantenimento della stabilità sociale”, ci sarà da attendersi l’arrivo di un massiccio piano di stimolo da parte del governo centrale, fattibile, per una serie di ragioni, tra le quali:
il rapporto debito/Pil della Cina è del 21%, di gran lunga inferiore a quello dei suoi governi locali (76%);
il rapporto deficit/Pil previsto per il 2023 è del 3%;
Se ci sono margini per uno stimolo fiscale, minori sono quelli per una politica monetaria ancora più accomodante: un ulteriore allargamento del divario tra i (bassi) tassi d’interesse della Banca popolare cinese e quelli (alti) della Federal Reserve incoraggerebbe infatti la fuga di capitali.
Quella che verrà fuori dalla conferenza di fine anno non sarà però una scelta unicamente “tecnica”, ma soprattutto politica, ed è dunque probabile che - se nei prossimi mesi l’economia cinese non darà chiari segnali di stabilizzazione - il partito opterà per un piano di stimolo piuttosto massiccio, in grado di sostenere le politiche ridistribuive della leadership guidata da Xi Jinping.
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China Focus: China opens its fastest cross-sea railway along Taiwan Strait, Xinhua
A Short History of Shanghai’s Free Trade Zone, Yin Chen
Has China Reached Its Peak?, Zhao Minghao