Così la Cina si adatta alla nuova normalità del "de-risking" e delle sanzioni
Con un viaggio in Germania e Francia e un discorso alla Davos estiva di Tianjin il numero due del Partito comunista spiega la linea di Pechino
«No alla politicizzazione dell’economia», il premier Li Qiang prova a rassicurare gli investitori
«Unilateralismo, protezionismo e de-globalizzazione sono in aumento». Malgrado ciò, «nel lungo periodo, la Cina continuerà ad apportare grande dinamismo alla ripresa e alla crescita dell’economia mondiale». Dal palco del 14esimo “Annual Meeting of the New Champions” del World Economic Forum (la “Davos estiva” di Tianjin) il premier cinese, Li Qiang, ha provato a rassicurare gli investitori sulle prospettive dell’economia nazionale in una fase nella quale si susseguono segnali e dati poco incoraggianti (sui consumi, sull’occupazione, sulla fiducia delle imprese). Li ha pronunciato il suo discorso il 29 giugno scorso, appena rientrato da un viaggio di cinque giorni in Germania e Francia.
Nel suo intervento di mezz’ora il numero due del partito comunista cinese ha battuto soprattutto su quattro punti:
a partire dal secondo trimestre di quest’anno, l’economia cinese - che nel primo ha registrato un Pil del +4,5% - crescerà con maggiore intensità, per centrare infine l’obiettivo di un aumento del Pil intorno al 5% nel 2023;
la globalizzazione è un processo storico inarrestabile, favorito dalla rivoluzione tecnologica, che va assecondato e non ostacolato da politiche come il “de-risking” promosso dalle economie avanzate;
le imprese devono essere lasciate libere di decidere le loro strategie e i governi non devono politicizzare l’economia;
la Cina ha ancora un ampio potenziale di crescita inespresso, e continuerà a rafforzare un’economia di mercato più aperta, stimolando la domanda interna.
A proposito della sua recente visita in Europa, Li ha dichiarato che:
Pochi giorni fa ho visitato la Germania e la Francia, dove ho avuto scambi approfonditi con i leader dei due Paesi e con esponenti della comunità politica e imprenditoriale. Il punto di vista prevalente è quello di rifiutare la mentalità a somma zero e mantenere la strada giusta della cooperazione vantaggiosa per tutti. […] Dovremmo opporci alla politicizzazione delle questioni economiche e lavorare insieme per mantenere le catene industriali e di approvvigionamento globali stabili e fluide e distribuire i frutti della globalizzazione tra diversi paesi e gruppi di persone in modo più equo. […] Alcuni in Occidente stanno esaltando la cosiddetta fraseologia della riduzione delle dipendenze e del “de-risking”. Questi due concetti rappresentano proposizioni false, perché la globalizzazione economica ha già fatto del mondo una casa comune, dove gli interessi di tutti sono strettamente intrecciati.
Già con il celeberrimo intervento di Xi Jinping al World Economic Forum del 2017, la Cina è diventata il paese che più strenuamente difende la “vecchia” globalizzazione: è normale che sia così per la “fabbrica del mondo” diventata il principale partner commerciale della maggior parte dei paesi, che ha tuttora bisogno di importare tecnologia per mettersi al passo con le economie più avanzate. Tuttavia negli ultimi anni queste ultime hanno sofferto sempre di più la concorrenza cinese, in Cina e nei mercati internazionali. La competizione sempre più accentuata, assieme alla risposta di Pechino alla pandemia, alla sua quasi-alleanza con la Russia, e alle tensioni su Taiwan stanno mettendo il vento nelle vele al “de-risking” stigmatizzato da Li.
Ciononostante, l’economia cinese continua a crescere e, secondo il Fondo monetario internazionale, nel 2023, con il 34,9%, sarà ancora di gran lunga il principale motore di crescita globale, restando dunque attrattiva per gli investitori. In questo contesto la strategia di Pechino non potrà che essere quella di difendere a oltranza l’apertura degli scambi e dei suoi mercati, e denunciare come un tentativo di “politicizzazione” dell’economia e di “frenare l’ascesa della Cina” il graduale allontanamento dalla Cina da parte delle economie avanzate di alcune produzioni, soprattutto nel settore hi-tech.
Per Pechino comunque non sarà facile difendere le proprie ragioni, come dimostrato dall’ultimo Consiglio europeo, che si è svolto dopo la trasferta di Li in Germania e Francia. Al termine del vertice del 29-30 giugno - durante il quale i leader dell’Ue si sono confrontati sulla Cina per un paio d’ore - sono risultate sempre più chiare due tendenze:
i 27 sono divisi tra chi (Germania, Francia e Italia) promuove un approccio più conciliante nei confronti di Pechino, a tutela dei rispettivi interessi commerciali e investimenti e altri invece (come, ad esempio, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, e i paesi baltici) che sul “de-risking” vorrebbero accelerare;
il “de-risking” è entrato nell’agenda dell’Unione. Come chiarito nel comunicato pubblicato alla fine del summit di Bruxelles, «L’Unione Europea cercherà di garantire condizioni di parità, in modo che le relazioni commerciali ed economiche siano equilibrate, reciproche e reciprocamente vantaggiose. In linea con l’agenda di Versailles, l’Unione Europea continuerà a ridurre le dipendenze e le vulnerabilità critiche, anche nelle sue catene di approvvigionamento, e ridurrà i rischi e diversificherà ove necessario e appropriato. L’Unione Europea non intende separarsi o chiudersi».
Tuttavia, come dimostra il caso di ASML, la compagnia olandese produttrice di stampanti per microprocessori che - in seguito alle pressioni dell’amministrazione Biden - ha annunciato che dal prossimo 1° settembre non venderà più alla Cina le sue stampanti per microchip più avanzate, la politica Usa di embargo hi-tech contro la Cina fa proseliti anche nell’Ue.
Inoltre permangono due grosse questioni irrisolte, che possono contribuire a orientare da una parte o dall’altra la politica dell’Ue sulla Cina: la guerra in Ucraina e Taiwan, che hanno trovato entrambe posto nel comunicato finale del summit del Consiglio europeo. Un conflitto che si protraesse, con la Cina che mantenesse la sua quasi-alleanza con la Russia non potrebbe che avere gravi conseguenze sulle relazioni tra Pechino e Bruxelles, così come un’eventuale esplosione delle tensioni attorno a Taiwan.
Taiwan, nel G7 già si studiano le sanzioni alla Cina, che avrebbero un impatto devastante sull’economia globale
Almeno 3.000 miliardi di dollari andrebbero subito in fumo se i paesi del G7 sanzionassero la Cina in caso di crisi su Taiwan. L’economia globale perderebbe una cifra equivalente al Pil del Regno Unito nel 2022. Il dato è al centro di una ricerca congiunta pubblicata da Atlantic Council e Rhodium Group, Sanctioning China in a Taiwan Crisis, Scenarios and Risks. Lo studio del think tank con sede a Washington che si occupa di «stimolare la leadership degli Stati Uniti nel mondo» e del centro di ricerca con focus sul settore privato in Cina muove da un confronto in corso tra policymaker e aziende dei sette paesi pesi più avanzati (ufficialmente non se ne parla all’interno dei governi). Tuttavia queste discussioni rivelano che un’ennesima crisi dello Stretto (sarebbe la quarta, dopo quelle del 1954-55, 1958 e 1995-96) rappresenta uno scenario tutt’altro che fantapolitico.
Secondo il rapporto, il coordinamento costante tra funzionari statunitensi ed europei ha evidenziato che «l’invasione russa dell’Ucraina ha rimodellato i contorni di ciò che era possibile nel regno della politica economica».
Quando parliamo di “crisi” intendiamo non solo uno scontro militare, ma anche altri due scenari, che a Taipei ritengono più probabili: un blocco dell’Isola da parte della marina e dell’aviazione cinese, e/o un grande attacco informatico contro le sue infrastrutture. Entrambi metterebbero in ginocchio l’economia di Taiwan, fortemente dipendente dall’export.
Prima di esaminare i risultati del paper, è importante riflettere sulle sue conclusioni. Secondo Atlantic Council e Rhodium Group, contro queste eventuali mosse di Pechino le contromisure economiche non basterebbero: esse sono «complementari, piuttosto che sostitutive, degli strumenti militari e diplomatici per mantenere la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan». Tuttavia a chi abbia analizzato l’ascesa di Xi Jinping e la riorganizzazione alla quale ha sottoposto negli ultimi dieci anni il partito e l’esercito appare evidente che nella “Nuova era” proclamata dal presidente cinese la questione taiwanese ha assunto una rinnovata centralità. In questo quadro, nessuna pressione militare e diplomatica potranno far recedere Pechino dalla “riunificazione” del territorio che considera una provincia ribelle. Pertanto, ciò che servirebbe con urgenza è una soluzione politica, basata su un nuovo accordo complessivo tra la potenza egemone e quella in ascesa.
Al contrario, si studiano le sanzioni, che colpirebbero tre ambiti principali: le banche (divieto di utilizzare il sistema SWIFT; limitazioni delle transazioni; mercato internazionale precluso ai titoli di debito cinesi); le élite politiche e militari (blocco dei beni e restrizioni ai visti); le compagnie legate all’esercito (restrizioni al commercio e agli investimenti; su obbligazioni e azioni; controlli sull’export).
Tuttavia, date le dimensioni (dieci volte quella russa) e i legami dell’economia cinese, per i governi del G7 sarebbe molto più difficile approvarle rispetto alle punizioni contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina. I due think tank evidenziano «gli interessi nazionali differenti, la diversa disponibilità a sopportare le ripercussioni economiche e le sfaccettature uniche delle loro relazioni con Washington». In effetti, se al Congresso Usa è già stato introdotto (il 29 marzo scorso) un progetto di legge ad hoc (lo “STAND with Taiwan Act”) per sanzionare la Cina se «l’Esercito popolare di liberazione avvia un’invasione di Taiwan», il presidente francese, Emmanuel Macron, pochi giorni dopo (il 9 aprile), ha avvertito in un’intervista a Politico che «la cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei su questa questione (Taiwan, ndr) dobbiamo seguire l’agenda degli Stati Uniti e una reazione eccessiva cinese». Per Washington Taiwan rappresenta una questione di sicurezza nazionale, per le capitali europee no. Le divergenze politiche riflettono quelle dell’opinione pubblica, con l’83 per cento degli statunitensi che ha un’idea “negativa” della Cina (Pew Research Center, aprile 2023), mentre il 62 per cento degli europei vorrebbe rimanere neurale in caso di conflitto tra Cina e Stati Uniti su Taiwan (European Council on Foreign Relations, giugno 2023).
Anche se l’ultimo vertice, a Hiroshima, ha ostentato unità sulla Cina, raggiungere un accordo tra i paesi del G7 per applicare eventuali sanzioni contro Pechino richiederebbe tempo e difficili compromessi. Un embargo contro la Cina equivarrebbe secondo alcuni alla “distruzione reciproca assicurata” immaginata in caso di impiego in guerra degli ordigni nucleari. Si tratta certamente di un’iperbole: in realtà quella delle punizioni e delle rappresaglie è una strada che Stati Uniti, Unione Europea e Cina hanno imboccato già da qualche tempo. Con il dialogo politico che si è fatto difficile e intermittente, avanzano le sanzioni. Come, ad esempio, quelle varate il 22 marzo 2021 da Bruxelles (in base al nuovo EU Global Human Rights Sanctions Regime) contro quattro funzionari e un’entità cinese per la repressione dei musulmani nella provincia del Xinjiang, reciprocate il giorno stesso da Pechino - uno scontro che ha contribuito alla sospensione del Comprehensive Agreement on Investiment (Cai) negoziato per sette anni tra la Cina e l’Ue. Oppure le tre compagnie cinesi (di Hong Kong) colpite, per la prima volta, da un pacchetto di sanzioni dell’Ue sulla guerra in Ucraina, l’undicesimo, approvato il 21 giugno scorso (Asia Pacific Links Ltd; Tordan Industry Limited; Alpha Trading Investments Limited) per il loro contributo finanziario o tecnologico allo sforzo bellico russo.
L’esposizione del sistema finanziario globale nei confronti di quello cinese è relativa soprattutto ai flussi commerciali internazionali: le banche cinesi mantengono conti (in dollari e in euro) presso istituti di credito internazionali per facilitare i pagamenti cross border. Stando così le cose, il G7 avrebbe due opzioni: sanzionare solo alcune banche con legami con il settore militare e tecnologico, senza alcun impatto sostanziale sui flussi finanziari complessivi del paese, oppure colpire le grandi banche di stato, causando i succitati 3.000 miliardi di ammanco al commercio e agli investimenti globali.
Punire alti funzionari del governo e dell’Esercito popolare di liberazione rappresenta invece un’eventualità alla quale i soggetti presi di mira si sono già preparati, rendendo molto complicato identificare i loro patrimoni detenuti all’estero.
C’è infine il controllo sulle esportazioni di componenti chiave, che potrebbe avere anch’esso un effetto boomerang sui paesi del G7. Prendiamo ad esempio il settore aerospaziale, predestinato alle sanzioni in caso di scontro su Taiwan. Sarebbero interessati 2,2 miliardi di dollari di export dei paesi del G7 verso la Cina, la quale potrebbe mettere in campo una rappresaglia da 33 miliardi di dollari, attraverso il blocco dell’acquisto di aerei e componenti dai paesi più avanzati.
Col ricorso sempre maggiore alle sanzioni contro la Cina, il governo di Pechino ha iniziato ad affinare gli strumenti per contrastarle. Anzitutto spingendo i paesi amici a utilizzare la sua divisa, in luogo del dollaro, nei commerci bilaterali. Lo yuan - che rappresenta tuttora una percentuale trascurabile delle riserve valutarie internazionali, il 2,7% - è sempre più utilizzato da paesi come Argentina, Brasile, oltre alla Russia, che hanno firmato con Pechino accordi ad hoc per regolare in yuan i loro commerci con la Cina.
In conseguenza di questo cambiamento, a marzo le banconote con l’effigie di Mao (48,4 per cento) hanno superato il biglietto verde (46,7 per cento), diventando la valuta più utilizzata dalla seconda economia del pianeta nei suoi scambi con l’estero. Non solo, a Pechino ritengono che in futuro lo yuan potrà essere impiegato sempre di più nelle transazioni tra paesi terzi, proprio in risposta a quella che stigmatizzano come l’“utilizzo del dollaro come arma” da parte degli Stati Uniti che i paesi non allineati stanno osservando contro la Russia (espulsa dal sistema interbancario SWIFT) e la Cina.
In secondo luogo Pechino sta spingendo per la promozione a livello globale del CIPS. L’alternativa “made in China” allo SWIFT, lanciata nel 2015 dalla Banca centrale, nel 2022 ha “processato” transazioni pari a 96.700 miliardi di yuan (oltre 14.000 miliardi di dollari) con 1.420 istituzioni finanziarie connesse in 109 paesi e regioni del mondo. Il sud del mondo ha iniziato a vedere sempre più il CIPS come una alternativa al CHIPS (utilizzato per le grandi transazioni, in dollari) proprio in seguito alle sanzioni imposte contro la Russia. Infine, la Cina sta sperimentando anche lo yuan digitale (e-CNY), che l’anno scorso è stato il gettone digitale (token) più utilizzato nelle transazioni internazionali.
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Quanto scritto va messo accanto alla legge sulle relazioni con l'estero entrata in vigore il 1 luglio 2023. Quella legge va in direzione piuttosto diversa, "un colpo al cerchio e uno alla botte" potremmo dire con un "chengyu" italico. cfr https://www.bbc.com/news/world-asia-china-66050926