L'anno del serpente
Pechino avverte Trump: lo sviluppo della Cina e Taiwan non sono negoziabili
Benvenut* in Rassegna Cina.
Il 29 gennaio scorso al dragone è subentrato il serpente (segno al quale appartengono sia Xi Jinping che Mao Zedong), che nello zodiaco cinese è associato al raccolto, alla procreazione, alla spiritualità e alla buona fortuna, ma anche all’astuzia, al male, alla minaccia e al terrore. Per Pechino l’anno nuovo ha già portato due novità clamorose: l’iniziativa di Donald Trump di colloqui bilaterali con la Russia sulla guerra in Ucraina e il successo della cinese DeepSeek nel campo dell’intelligenza artificiale, nel quale - prima dell’exploit della compagnia di Hangzhou - si riteneva che la Cina fosse molto indietro rispetto agli Stati Uniti.
Buongiorno da Shanghai da Michelangelo Cocco
Alla Conferenza sulla sicurezza che si è svolta a Monaco di Baviera dal 14 al 16 febbraio scorso la Cina ha lanciato segnali importanti: sulla soluzione negoziale del conflitto in Ucraina, agli Stati Uniti e all’Unione Europea.
Nella città tedesca Wang Yi ha anzitutto chiarito che la Cina appoggia l’idea di Donald Trump di trattative dirette con la Russia. Il ministro degli esteri di Pechino ha dichiarato:
«La Cina è favorevole a tutti gli sforzi per promuovere la pace... Gli Stati Uniti hanno raggiunto un’intesa con la Russia e crediamo che tutte le parti e tutti gli stakeholder dovrebbero, al momento opportuno, partecipare al processo dei colloqui di pace».
Ma l’influente membro dell’ufficio politico del Partito comunista - proprio mentre il vice presidente Usa, JD Vance, nello stesso consesso attaccava le politiche migratorie, sull’aborto e la governance digitale dell’UE - ha rilanciato il ruolo della Cina come fautrice dell’ordine internazionale, ricordando a Bruxelles che:
«Nel corso degli anni, è stato detto che la Cina sta tentando di cambiare l’ordine e vuole avviare un nuovo sistema. Ora invece non se ne parla più molto, perché ora c’è un paese (gli Stati Uniti, ndr) che si sta ritirando dai trattati e dalle organizzazioni internazionali e penso che l’Europa possa sentire i brividi quasi ogni giorno. Per quanto riguarda la Cina, sta crescendo nell’ordine esistente: la Cina ne è beneficiaria».
Un riavvicinamento Cina-Unione Europea non è affatto semplice, né scontato. L’alta rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’UE, Kaja Kallas, a Monaco ha continuato a criticare la politica estera di Pechino, dichiarando che «se la Cina vuole avere buoni rapporti con l’Europa, deve smettere di consentire la guerra della Russia».
Tuttavia è chiaro che non solo il protezionismo dell’amministrazione Trump, ma anche la sua politica estera e di difesa renderà Bruxelles più sensibile alle sirene di Pechino. Ad esempio, il segretario alla Difesa Usa, Pete Hegseth, mercoledì scorso ha annunciato che le truppe europee di mantenimento della pace in Ucraina non saranno coperte dall’articolo 5 del trattato della Nato, che assicura la mutua difesa tra i paesi membri.
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Prima, durante e dopo l’incontro bilaterale dell’altro ieri tra le delegazioni russa e statunitense in Arabia Saudita, Pechino ha sottolineato che qualsiasi negoziato dovrà includere tutte le parti coinvolte e tutti gli stakholder. In particolare, l’ambasciatore cinese presso le Nazioni Unite, Fu Cong, ha dichiarato:
«La Cina accoglie con favore tutti gli sforzi in direzione della pace, compreso il recente accordo raggiunto da Stati Uniti e Russia per avviare colloqui di pace. Allo stesso tempo, la Cina spera che tutte le parti interessate e gli stakeholder coinvolti nella crisi ucraina si impegnino nel processo di colloqui di pace e raggiungano un accordo di pace giusto, duraturo e vincolante, accettabile per tutte le parti».
La Cina di Xi Jinping - che ha rafforzato i legami con la Russia di Putin e che il 24 febbraio 2023, un anno dopo lo scoppio della guerra, ha elaborato una proposta di soluzione politica del conflitto, deve evitare di essere lasciata ai margini di eventuali trattative a trazione russo-statunitense.
Anche per questo obiettivo sono funzionali le parole pronunciate da Wang contro l’unilateralismo alle Nazioni Unite:
«I paesi sono interdipendenti e condividono lo stesso futuro e nessun paese può farcela da solo. Non dobbiamo permettere che i forti governino i deboli e tanto meno ritornare alla legge della giungla».
Tornando a Monaco, nel suo discorso alla sessantunesima Conferenza sulla sicurezza Wang è tornato sulle relazioni bilaterali con gli Stati Uniti. In riferimento al protezionismo e al contenimento hi-tech della Cina, il ministro degli esteri di Pechino ha dichiarato che:
«Naturalmente speriamo che gli Stati Uniti lavorino con noi nella stessa direzione. Tuttavia, se gli Stati Uniti non sono disposti, se sono intenzionati a reprimere e contenere la Cina, allora non abbiamo altra scelta che stare al gioco fino alla fine. E risponderemo con decisione alle pratiche unilaterali di bullismo degli Stati Uniti».
E, in un passaggio su Taiwan, ha sostenuto che:
«Voglio sottolineare che non dovrebbero esserci doppi standard nell’adesione alle leggi internazionali. La sovranità e l’integrità territoriale di tutti i paesi devono essere rispettate, il che significa sostenere la completa riunificazione della Cina».
Il 7 febbraio scorso, Trump e il primo ministro giapponese, Shigeru Ishiba, avevano pubblicato una dichiarazione congiunta per opporsi a qualsiasi alterazione dello status quo nello Stretto di Taiwan attraverso la forza o la “coercizione”. L’inclusione di quest’ultimo termine ha suggerito che i due alleati punterebbero a osteggiare qualsiasi tattica cinese per fare pressione sull’isola che Pechino rivendica come una sua provincia.
Anche su Taiwan si era focalizzato il primo contatto ufficiale tra le due amministrazioni dopo l’insediamento di Trump, con la telefonata di venerdì 24 gennaio tra il ministro degli esteri cinese, Wang Yi, e il suo omologo statunitense, Marco Rubio. I resoconti di Pechino e di Washington sulla conversazione divergono e, mentre il primo è più articolato, quello Usa è più scarno.
Tuttavia da entrambi si evince che - oltre ai dazi sulle merci importate dalla Cina negli Usa, che Trump ha aumentato del 10 per cento - le questioni che maggiormente dividono i due governi sono Taiwan e le dispute territoriali nel Mar cinese Meridionale, parte di quell’Oceano Pacifico finora dominato dagli Usa grazie alla VII flotta e alla loro rete di alleanze politico-militari.
Nel comunicato Usa si legge che Rubio (promotore al Congresso di una serie di leggi anti-Cina) «ha sottolineato l’impegno degli Stati Uniti nei confronti dei nostri alleati nella regione e la seria preoccupazione per le azioni coercitive della Cina contro Taiwan e nel Mar cinese meridionale». Ciò segnala che l’America dello “isolazionista” Trump non ha intenzione di rinunciare alla sua egemonia nel Pacifico occidentale.
Mentre quello cinese manda a Washington un doppio avvertimento. Anzitutto a non ostacolare (con i dazi o quant’altro) lo sviluppo socioeconomico della Cina. Wang ha infatti detto a Rubio che
«la leadership del Partito Comunista Cinese è la scelta del popolo cinese. Lo sviluppo della Cina ha una chiara logica storica ed è guidato da un forte dinamismo interno. Il nostro obiettivo è offrire una vita migliore alle persone e dare un contributo maggiore al mondo. Non abbiamo intenzione di superare o sostituire nessuno, ma dobbiamo difendere il nostro legittimo diritto allo sviluppo».
Dall’altro, su Taiwan, il capo della diplomazia cinese ha ribadito le tradizionali linee rosse di Pechino, sottolineando che
«Taiwan fa parte del territorio cinese fin dai tempi antichi e che non permetteremo mai che Taiwan venga separata dalla Cina. Gli Stati Uniti hanno assunto impegni solenni a rispettare la politica di una sola Cina nei tre comunicati congiunti e non dovrebbero rinnegarli».
Come era prevedibile, Trump ha iniziato il suo secondo mandato concentrandosi sui temi “identitari” del suo elettorato, varando una serie di ordini esecutivi contro l’immigrazione illegale, i diritti delle persone LGBTIQ+, eccetera.
Tuttavia è inevitabile che nelle prossime settimane dovrà affrontare i nodi delle relazioni tra la prima e la seconda economia del pianeta, sempre più tese, nonostante nei giorni scorsi abbia dichiarato che «Xi Jinping è come un amico», con il quale «potrò andare molto d’accordo».
Con ogni probabilità Trump partirà dalla questione del commercio tra i due paesi, che nel 2024 ha fatto registrare un surplus per la Cina di 361 miliardi di dollari, quasi un terzo dell’avanzo commerciale complessivo (con il resto del mondo) di Pechino. A tal proposito, la Casa bianca ha annunciato che sta effettuando una “revisione del rispetto dell’accordo economico e commerciale tra Cina e Stati Uniti”, che sarà ultimata entro il 30 aprile.
L’intenzione dell’amministrazione repubblicana sarebbe dunque di ripartire dall’accordo strappato a Pechino dopo che, nel 2018-2019, il Trump I aveva imposto dazi per 370 miliardi di dollari sulle importazioni dalla Cina. Quella intesa siglata nel 2020 prevedeva l’acquisto (in due anni) di 270 miliardi di dollari di prodotti statunitensi in più, rispetto al livello del 2017. Un’intesa mai rispettata da Pechino, anche a causa dell’emergenza della pandemia di Covid-19.
Riproporre il patto di quattro anni fa permetterebbe a Trump di riportare Pechino al tavolo del negoziato, accantonando la minaccia elettorale di dazi del 60 per cento su tutte le merci importate negli Usa dalla Cina.
Intanto nella sede diplomatica Usa di Pechino è in arrivo il nuovo ambasciatore che sostituirà Nicholas Burns, diplomatico di professione: si tratta dell’ex senatore della Georgia David Perdue, con una carriera da consulente e businessman. Lo affiancherà - nel ruolo di vice capo missione - Sarah Beran, esperta di Cina e Taiwan ed ex funzionaria del Consiglio per la sicurezza nazionale.
Il successo di DeepSeek pone agli Usa un problema politico: il decoupling hi-tech non funziona
Il successo dell’intelligenza artificiale della cinese DeepSeek - l’educazione del cui chatbot avrebbe richiesto (secondo quanto dichiarato dalla stessa compagnia) una quantità di microchip, e dunque un investimento, di gran lunga inferiore rispetto a quella necessaria alla statunitense ChatGPT, sta avendo un impatto che va ben oltre la semplice competizione tecnologica Cina-Usa.
Le ripercussioni del boom di DeepSeek (diventata immediatamente tra le app più scaricate, anche negli Stati Uniti) si sono avvertite anzitutto nelle borse statunitensi, dove i titoli di Nvidia (che produce i microchip utilizzati da ChatGPT) sono arrivati a perdere il 17 per cento e a bruciare 600 miliardi di dollari di valore azionario, il crollo più grande di Wall Street in un solo giorno.
Ma il risultato conseguito dalla compagnia con sede ad Hangzhou pone all’amministrazione Trump soprattutto un problema politico, ovvero: è utile continuare a seguire la strategia di Biden del “cortile stretto con recinto alto”, cioè l’embargo nei confronti della Cina sulle tecnologie più performanti e strategiche, magari allargando il perimetro del “cortile” (aumentando il numero di prodotti e software da vietare alla Cina)? Oppure questa strategia ha accelerato la rincorsa della Cina, rivelandosi controproducente, ed è dunque tempo di adottare politiche diverse?
La prima dichiarazione del presidente Usa è stata piuttosto sibillina: Trump ha affermato che l’improvvisa ascesa dell’app cinese di intelligenza artificiale DeepSeek «dovrebbe essere un campanello d’allarme» per le aziende tecnologiche americane.
Trump ha aggiunto di considerare il modello a basso costo «uno sviluppo decisamente positivo» per l’intelligenza artificiale in generale, perché «invece di spendere miliardi e miliardi, spenderemo meno e, si spera, troveremo la stessa soluzione».
Nel campo dell’intelligenza artificiale gli Stati Uniti finiranno per copiare dalla Cina?
Intanto, tre giorni dopo il suo insediamento, con uno dei suoi ordini esecutivi, Trump ha cancellato le limitazioni allo sviluppo dell’intelligenza artificiale volute dall’amministrazione Biden. L’idea di fondo è quella della deregulation, che dovrebbe favorire automaticamente lo sviluppo dell’industria, che così sarebbe più attrezzata per competere con la Cina.
David Sacks, lo zar dell'intelligenza artificiale e delle criptovalute della Casa Bianca, ha sostenuto su X che il successo di DeepSeek «dimostra che la corsa all’intelligenza artificiale sarà molto competitiva», aggiungendo che l’ex presidente Joe Biden ha «ostacolato» le compagnie Usa di intelligenza artificiale.
Se per quanto riguarda il mercato interno la linea è chiaramente quella della rimozione delle regole sull’intelligenza artificiale, per quanto riguarda la competizione con la Cina in quest’ambito, sia i repubblicani sia i democratici si dichiarano favorevoli al mantenimento delle attuali restrizioni (sull’export di microchip e altre tecnologie chiave e sugli investimenti bilaterali), quando non ad aumentarle.
L’ultrà anti-Cina John Moolenaar, il repubblicano che presiede l’orwelliana “Commissione speciale della Camera sulla competizione strategica tra gli Stati Uniti e il Partito comunista cinese” ha avvertito che:
«Gli Stati Uniti non possono permettere che modelli del PCC come DeepSeek mettano a rischio la nostra sicurezza nazionale e sfruttino la nostra tecnologia per portare avanti le loro ambizioni di intelligenza artificiale. Dobbiamo lavorare per imporre rapidamente controlli più forti sulle esportazioni delle tecnologie fondamentali per l’infrastruttura AI di DeepSeek».
Veicoli elettrici, raggiunto il picco?
Il mercato cinese dei veicoli a nuova energia (Nev) si è confermato il più grande del mondo per il decimo anno consecutivo. Il 2024 si è chiuso infatti con un nuovo record: 12,888 milioni di unità prodotte e 12,866 milioni di unità vendute, secondo la China Association of Automobile Manufacturers (Caam), in aumento rispettivamente del 34,4 per cento e del 35,5 per cento anno su base annua. I Nev rappresentano il 40,9 per cento delle vendite totali di auto nuove in Cina (+9,3 per cento rispetto al 2023).
Secondo la Caam, nel 2024 le esportazioni di veicoli elettrici (1,28 milioni) sono aumentate del 6,7 per cento, permettendo alla Cina di mantenere la leadership globale strappata l’anno precedente al Giappone.

Nell’ambito della categoria dei veicoli a nuova energia (Nev), quelli a batteria (Bev) nel 2024 hanno rappresentato il 60 per cento delle vendite (-10,4 per cento rispetto al 2023), mentre quelli ibridi plug-in (Phev) sono cresciuti fino a rappresentare il 40 per cento del totale. I Phev non sono soggetti all’aumento dei dazi d’importazione recentemente decretato dalla Commissione europea, che riguarda solo i Bev.
Dunque le macchine ibride aumenteranno la loro quota rispetto alle elettriche pure nelle esportazioni, e anche nel mercato interno, dove i consumatori cinesi le preferiscono, perché la loro doppia alimentazione (elettrica e a combustibile fossile) garantisce una maggiore autonomia.
Tra i fattori che hanno contribuito in maniera determinante all’ennesimo record di vendite in Cina dei veicoli a nuova energia vanno annoverati:
le politiche governative di sostegno al settore;
la varietà dell’offerta di modelli di Nev;
i prezzi bassi;
il miglioramento e l’ampliamento dell’infrastruttura di ricarica.
I record del 2024 sono stati favoriti anche dai sussidi diretti concessi dal governo per la rottamazione di vecchie auto Ice, che ammontavano a 20.000 RMB (2.740 USD), equivalenti al 10-20 per cento del valore di circa la metà degli Ev in circolazione in Cina, e che il governo ha confermato per tutto il 2025.
Con il mercato che sta per avviarsi verso una fase di consolidamento, al momento soltanto tre – BYD, Li Auto e Aito (di proprietà di Huawei) – sui circa 60 marchi cinesi di veicoli a nuova energia sono riusciti a fare profitti. Mentre la crescita dell’economia si manterrà sui relativamente bassi tassi post-pandemia (il pil crescerà di circa il 5 per cento secondo le previsioni) e con la guerra dei prezzi tra i produttori entrata nel suo terzo anno, il 2025 potrebbe far registrare per la prima volta un rallentamento nella vendita di veicoli a nuova energia, e il fallimento di un certo numero di brand, in un mercato sovraffollato.
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