Come cambia la via della Seta; Pil +4,9%, segnali di ripresa nel terzo trimestre; inchiesta UE sull'acciaio cinese.
La cooperazione promossa da Pechino, osteggiata dai paesi ricchi, avanza in Asia e Africa
Buongiorno a tutt* da Shanghai,
i rappresentanti dei 140 paesi che il 17-18 ottobre hanno partecipato a Pechino al terzo forum sulla Belt and Road Initiative (Bri), in occasione del decennale del suo lancio, si sono ritrovati in una sorta di mondo parallelo. Mentre gli Stati Uniti e l’Unione Europea sono alle prese con le guerre in Ucraina e a Gaza, la Cina, grazie alla via della Seta, avanza esportando infrastrutture per lo sviluppo economico nel Sud globale e un’interpretazione fondamentalista del principio di "sovranità" che contribuisce a rafforzare i suoi legami con regimi come quello egiziano, saudita, kazako… una ricetta di sicuro successo.
La cooperazione della Belt and Road Initiative è dalla parte giusta della storia, ha titolato il nazionalista Global Times, contrapponendo questa nuova forma di collaborazione internazionale all’egemonia statunitense, che sta mostrando i suoi limiti proprio in Ucraina, dove non può sostenere ad infinitum una riconquista territoriale di Kiev che stenta a materializzarsi, e in Palestina, dove, dopo decenni di “mediazione” da parte di Washington, quello che avrebbe dovuto essere un precorso di pace tra arabi ed ebrei è andato definitivamente in frantumi con una nuova guerra che minaccia di allargarsi a tutto il Medio Oriente.
Gli otto punti di Xi Jinping: la Belt and Road Initiative del Sud globale riparte così
La Belt and Road Initiative non è stata “ridimensionata”, piuttosto, nel corso degli anni, ha dovuto adattarsi all’altolà, immediato, degli Stati Uniti e a quello, successivo, dell’Unione Europea: ha cambiato punti di sbocco e rivisto obiettivi, come era logico in un piano che, dal primo momento, era stato concepito per essere flessibile, contrariamente alle rappresentazioni mediatiche che lo hanno raffigurato come un progetto con tappe e finalità predeterminate. La settimana scorsa, il Consiglio di stato ha pubblicato un White Paper sulla Bri (scaricabile dalla sezione “strumenti, documenti-strategie” del sito internet del Centro studi sulla Cina contemporanea). In occasione del III forum internazionale sulla Bri che si è svolto a Pechino dal 17 al 18 ottobre scorso, Xi Jinping (a questo link la trascrizione integrale del discorso pronunciato dal presidente cinese) ha illustrato otto punti lungo i quali dovrebbe svilupparsi nei prossimi anni l’iniziativa che sta contribuendo ad affermare il suo paese come leader del Sud globale:
la Cina, insieme ad altre parti, costruirà un nuovo corridoio logistico attraverso il continente eurasiatico collegato tramite trasporto ferroviario e stradale diretto;
il paese eliminerà tutte le restrizioni all’accesso agli investimenti esteri nel settore manifatturiero;
la China Development Bank e la Export-Import Bank of China istituiranno ciascuna una capacità di finanziamento di 350 miliardi di yuan (48,75 miliardi di dollari USA) e ulteriori 80 miliardi di yuan verranno immessi nel Silk Road Fund, per finanziare soprattutto progetti “piccoli e intelligenti”.
la Cina allargherà ulteriormente la cooperazione in settori quali le infrastrutture verdi, l’energia pulita e i trasporti verdi, e intensificherà il sostegno alla Bri International Green Development Coalition;
la Cina continuerà ad attuare il piano d’azione per la cooperazione in materia di scienza, tecnologia e innovazione della Belt and Road e terrà la prima conferenza Belt and Road sullo scambio di scienza e tecnologia;
la Cina sosterrà gli scambi tra popoli, tra l’altro ospitando il Forum Liangzhu per rafforzare il dialogo sulle civiltà con i paesi partner della Bri;
sarà migliorata la trasparenza nei meccanismi di cooperazione della Bri;
la Bri verrà strutturata attraverso istituzioni, inclusa una segreteria.
Rispetto al 2013 è un mondo nuovo quello nel quale la Bri dovrà farsi largo in futuro. Il contenimento nei confronti della Cina attuato dagli Stati Uniti - che, come nel caso dell’hi-tech, provano a coinvolgervi il loro sistema di alleanze - riduce lo spazio per la nuova via della Seta. Anche per superare questo ostacolo Pechino ha tracciato per i prossimi dieci anni un percorso che dovrebbe affermare una “cooperazione di alta qualità”. Se nei primi dieci anni la Cina vi ha investito miliardi di dollari, d’ora in avanti la Bri costerà molto di meno (anche a causa del rallentamento della sua economia e della domanda globale). I nuovi piano di finanziamento dovranno in particolare:
attrarre più fondi da capitali privati in tutto il mondo;
promuovere la riforma delle imprese statali cinesi;
favorire ulteriormente l’internazionalizzazione dello yuan.
Secondo Vladimir Putin - che per partecipare al forum sulla Bri ha compiuto il primo viaggio al di fuori dello spazio ex sovietico dall’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 -, la Belt and Road Initiative è in linea con la visione della Russia di creare un partenariato eurasiatico, la Bri e l’Unione economica eurasiatica EAEU sarebbero “complementari”. «La Russia, la Cina e molti paesi condividono la visione di una cooperazione paritaria nel rispetto della diversità», ha dichiarato il presidente russo. Di fatto però la Bri favorirà ulteriormente gli interessi della Cina in un’area - l’Asia centrale dei paesi -stan - tradizionale sfera d’influenza di Mosca.
A margine del forum Putin ha incontrato Xi (per la quarantaduesima volta in quattro anni) e i due capi di stato - riferiscono i media cinesi - «hanno avuto uno scambio approfondito anche sulla situazione in Israele e Palestina». Pechino ha annunciato che nei prossimi giorni arriverà in Medio Oriente il suo inviato, Zhai Jun, per «coordinarci con le varie parti per un cessate il fuoco, per proteggere i civili, alleviarne le sofferenze e promuovere negoziati di pace». Nei giorni scorsi ha telefonato al premier Benjamin Netanyahu, che ha tagliato corto: «Israele non si fermerà fino a quando non avrà distrutto le infrastrutture militari e amministrative di Hamas».
I caratteri di questa settimana sono quelli di 合作 (hézuò), “cooperazione”: la parola magica che Pechino utilizza per promuovere a livello internazionale l’obiettivo del “grandioso risveglio della nazione cinese”
L’assedio di Gaza distrae l’attenzione internazionale dalla guerra di Putin in Ucraina, mentre Pechino deve trovare il modo di spegnere le fiamme nell’area dalla quale arriva gran parte delle sue importazioni di greggio e che ha provato a stabilizzare tessendo una tela diplomatica culminata il 6 aprile scorso nella storica stretta di mano tra iraniani e sauditi a Pechino.
Come in occasione dell’invasione dell’Ucraina, la crisi di Gaza sta riproponendo la divisione tra l’Occidente, egemonizzato dagli Stati Uniti e schierato con Israele, e il Sud globale, che segue la Cina che non condanna Hamas, critica la risposta di Netanyahu al massacro del 7 ottobre e chiede la nascita di uno stato palestinese. La leadership di Pechino è abile a cogliere le opportunità che si celano in ogni crisi. Quella di Gaza le serve a promuovere la sua idea di mondo “multipolare”. E tanti paesi presenti al forum sulla Bri (Egitto, Brasile, Sudafrica, Indonesia, tra gli altri) sono stati pronti a sostenere la sua linea “controcorrente” e le sue ambizioni negoziali. In un colloquio con Blinken, il presidente egiziano Al-Sisi ha usato la stessa espressione di Wang Yi: l’operazione contro Gaza ha superato il “diritto di autodifesa” e si è trasformata in una “punizione collettiva”. La risoluzione - che non condanna Hamas - presentata dalla Russia ha spaccato il Consiglio di sicurezza dell’Onu, ottenendo il voto favorevole di Cina, Emirati arabi, Mozambico, Gabon, l’astensione di Albania, Brasile, Ecuador, Ghana, Malta e Svizzera, e il voto contrario di Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Giappone.
Graham Allison, il teorico della “Trappola di Tucidide”, ha dichiarato alla Reuters che «negli ultimi dieci anni, Xi ha costruito con la Russia di Putin l’alleanza non dichiarata più importante al mondo». Anche gli ultimi dati economici sembrerebbero dargli ragione. Il mese scorso, mentre sono calate le esportazioni cinesi verso tutti i grandi blocchi (Asean -15,8 per cento, 44 miliardi di dollari; Stati Uniti -9,3 per cento, 46 miliardi di dollari; Unione Europea -11,6 per cento, 41,5 miliardi di dollari), continuano ad aumentare quelle verso la Russia (+20,5 per cento, 9,6 miliardi di dollari).
Tuttavia con il comune “nemico” - Washington - Mosca e Pechino hanno relazioni molto diverse: a differenza di quella russa, l’economia cinese resta intrecciata a quella statunitense e gli Usa sono un avversario che, militarmente, Pechino teme più di Mosca.
Negli ultimi giorni il senatore statunitense Chuck Schumer, in visita a Pechino, e il segretario di stato, Antony Blinken, hanno chiesto rispettivamente a Xi Jinping e Wang Yi di convincere l’Iran a rimanere fuori dal conflitto. Mentre resta in piedi la possibilità di un incontro Xi-Biden al vertice dell’Apec di San Francisco, il mese prossimo. Il comandante Daniel Hagari ha rivelato che il gabinetto di guerra presieduto da Netanyahu ritiene che lo status di Gaza dopo l’annunciata offensiva di terra debba diventare un “problema globale”. E Pechino ha segnalato chiaramente di voler essere parte della soluzione.
I dati del terzo trimestre: l’obiettivo della crescita del Pil “intorno al 5%” nel 2023 è a portata di mano, il piano di stimolo può attendere
Nel terzo trimestre 2023, il prodotto interno lordo (Pil) della Cina è cresciuto del 4,9%, superando le aspettative. Il dato relativo al periodo luglio-settembre, comunicato il 18 ottobre dall’Ufficio nazionale di statistica (Nbs), conferma che l’economia cinese si mantiene in scia per raggiungere per quest’anno l’obiettivo prefissato, che è di un aumento del Pil di “circa il 5%”. Nei primi nove mesi di quest’anno infatti il Pil è aumentato mediamente del 5,3%, rispetto allo stesso periodo del 2022. E, nello stesso giorno della pubblicazione dei dati del Nbs, JP Morgan e Nomura hanno rivisto al rialzo le prospettive di crescita della Cina per l’anno in corso, portandole rispettivamente dal 5% al 5,2% e dal 4,8% al 5,1%.
Presentando le ultime statistiche, il vice direttore del Nbs, Sheng Laiyun, ha spiegato così le prossime mosse del governo: «Ci concentreremo sull’incremento della domanda interna effettiva, sul rafforzamento delle aziende private e sull’attuazione delle politiche già varate… per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sociale ed economico di quest’anno». Dunque nell’immediato non è previsto il varo di alcun piano di stimolo (soprattutto fiscale), né significativa riforma strutturale, che saranno valutati in occasione della prossima Conferenza sul lavoro economico del Partito comunista cinese (che si svolge ogni anno nel mese di dicembre).
Segnali di ripresa sono giunti anche dai consumi e dalla produzione industriale, che a settembre è cresciuta più del previsto, del 4,5% rispetto all’anno precedente. Anche le vendite al dettaglio (i consumi delle famiglie) hanno superato le aspettative, aumentando del 5,5% il mese scorso. Gli investimenti in capitale fisso sono cresciuti del 3,1% nei primi nove mesi del 2023 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
I dati pubblicati dall’Amministrazione generale delle dogane rilevano che a settembre le esportazioni (299,1 miliardi di dollari) sono diminuite (per il quinto mese consecutivo) del 6,2% rispetto allo stesso mese del 2022. Un calo tuttavia inferiore a quello dell’agosto scorso (-8,8%), così come si è ridotto il rallentamento delle importazioni: -6,2% anno su anno a settembre, contro il -7,3% di agosto. Il surplus commerciale della Cina a settembre è salito a 77,71 miliardi di dollari (68,4 miliardi di dollari il mese precedente), permettendo di mantenere stabile il tasso di cambio dollaro-yuan e di tollerare l’apprezzamento del RMB nei prossimi mesi. Mentre solo calate le esportazioni verso tutti i grandi blocchi (Asean -15,8%, 44 miliardi di dollari; Stati Uniti -9,3%, 46 miliardi di dollari; Unione Europea -11,6%, 41,5 miliardi di dollari), continuano ad aumentare quelle verso la Russia (+20,5%, 9,6 miliardi di dollari).
L’inflazione a settembre è rimasta ferma, dopo che il mese precedente aveva fatto registrare un +0,1%. A pesare è soprattutto il calo dei prezzi del cibo (-3,2% a settembre), determinato dalla domanda dei consumatori (che resta comunque debole), a sua volta frutto del generale clima d’incertezza causato dalla crisi del settore immobiliare, dove all’insolvenza sulle obbligazioni offshore di Evergrande si è aggiunta quella di Country Garden - il primo colosso immobiliare cinese del settore privato - che non ha ancora fornito informazioni sui 15 milioni di dollari di bond che avrebbe dovuto rimborsare il 17 ottobre scorso.
Dopo le auto elettriche, l’acciaio e l’alluminio: l’Unione europea spera di riequilibrare il deficit commerciale con la Cina a colpi di inchieste anti-dumping
È improbabile che la leadership di Pechino - dopo che il Financial Times ha rivelato che Bruxelles, in seguito a un’intesa con Washington, potrebbe aumentare i dazi sull’acciaio e sull’alluminio cinese - sia stata convinta a «smettere di guardare all’Unione Europea attraverso la lente delle sue relazioni con altri», cioè gli Stati Uniti. Eppure è proprio questo l’obiettivo che si era proposto Josep Borrell sbarcando lo scorso settimana in una Cina con la quale le relazioni dell’Europa a 27 non accennano a migliorare.
L’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza ha dichiarato che la Cina dovrebbe capire che «le nostre valutazioni e la nostra condotta sono guidate dai nostri interessi». E ha fatto precedere il suo incontro con il ministro degli esteri Wang Yi da un suo articolo su South China Morning Post nel quale ha avvertito che se Pechino non contribuirà a correggere il crescente deficit commerciale, «gli elettori europei pretenderanno ulteriori misure protezionistiche».
Secondo Borrell l’enorme deficit commerciale dell’Europa a 27 non è il prodotto di uno svantaggio competitivo del’UE ma piuttosto delle crescenti difficoltà d’accesso che le compagnie europee incontrano in Cina.
Più che raddoppiata durante la pandemia (da 165 a 395 miliardi di euro tra il 2019 e il 2022) la differenza tra il valore di quanto l’Ue esporta verso e importa dalla Cina secondo l’alto funzionario europeo «ha a che fare con i persistenti problemi di accesso al mercato incontrati dalle aziende europee in Cina». Difficoltà destinate ad aumentare, perché sono sempre di più i settori industriali nei quali la Cina è sempre più competitiva. Come quello dei veicoli elettrici, sui quali il 13 settembre scorso la Commissione ha avviato un’inchiesta anti-dumping, che potrebbe concludersi anch’essa con l’imposizione di dazi.
Pechino ha reagito immediatamente, per bocca di Wang Lutong: «Ho appreso che l’Ue potrebbe annunciare un’indagine anti-sovvenzioni nei confronti dei produttori siderurgici cinesi. Essendo il più grande esportatore, la Cina contribuisce alla resilienza della catena di approvvigionamento globale dell’acciaio. L’azione dell’Ue colpirà solo l’industria siderurgica e ostacolerà la ripresa globale», ha protestato via X il capo del dipartimento per l’Europa del ministero degli esteri. L’inchiesta di Bruxelles potrebbe portare all’imposizione di dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio importati dalla Cina. La mossa dell’esecutivo comunitario rientrerebbe nel Global Arrangement on Sustainable Steel and Aluminium (GSA) che l’amministrazione Biden sta negoziando con l’esecutivo comunitario presieduto da Ursula von der Leyen.
L’intesa prevede che gli Stati Uniti rimuovano alcune tariffe sull’acciaio europeo volute dalla presidenza Trump. Secondo il Financial Times, che ha rivelato l’accordo, «funzionari dell’UE hanno affermato di aver compreso la necessità che il presidente Joe Biden protegga i posti di lavoro dei lavoratori dell’industria siderurgica negli stati indecisi come Pennsylvania e Ohio per evitare che Trump vinca una rivincita elettorale l’anno prossimo».
Diversi commissari europei hanno anche ventilato la prospettiva di un’indagine separata sulle turbine eoliche di fabbricazione cinese, anche se - secondo le fonti del quotidiano britannico - è improbabile che ciò accada in tempi brevi.
Il Financial Times ricorda che «le importazioni dell’UE di turbine eoliche cinesi sono diminuite nei primi otto mesi del 2023, come mostrano i dati doganali, e c’è poca voglia di aprire un altro fronte con Pechino in alcune parti della Commissione».
Negli ultimi giorni l’Ue ha approvato un regolamento che istituisce uno strumento anti-coercizione economica (Aci), un deterrente per impedire a paesi terzi di esercitare sugli stati membri pressioni economiche a fini geopolitici, e ha dettagliato le quattro aree (semiconduttori avanzati, intelligenza artificiale, tecnologie quantistiche, biotecnologie) dalle quali inizierà ad articolare la sua politica di “de-risking”, di riduzione di dipendenze economiche giudicate pericolose. Si tratta in entrambi i casi di politiche che hanno come oggetto principalmente la Cina, seppur non ufficialmente né esclusivamente.
La guerra in Ucraina continua ad alimentare la diffidenza tra Bruxelles e Pechino. Nell’intervista concessa in esclusiva al quotidiano hongkonghese South China Morning Post, alla vigilia dell’incontro di Pechino con il ministro degli esteri, Wang Yi, Borrell ha ricordato che l’Europa non è “completamente convinta” della neutralità cinese. Il politico del Psoe ha girato il coltello nella piaga: «Essere neutrali in un caso del genere è come assistere da lontano mentre la volpe entra nel pollaio e attendere l’esito».
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