L'attacco all'Iran è un attacco alla Cina
L'escalation di Israele minaccia gli interessi di Pechino in Medio Oriente e viola la "sacralità" della sovranità
Buongiorno da Shanghai da Michelangelo Cocco
Nel quinto giorno di guerra tra Israele e Iran, ieri Xi Jinping ha fatto sentire la sua voce. A margine del vertice di Astana con i paesi dell’Asia centrale, il presidente cinese ha dichiarato:
Tutte le parti interessate dovrebbero adoperarsi per una de-escalation del conflitto il prima possibile ed evitare un’ulteriore escalation delle tensioni. La Cina è pronta a collaborare con tutte le parti per svolgere un ruolo costruttivo nel ripristino della pace e della stabilità in Medio Oriente.
Le azioni militari di Israele contro l’Iran hanno portato a un’improvvisa escalation delle tensioni in Medio Oriente, che preoccupa profondamente la Cina. Ci opponiamo a qualsiasi azione che violi la sovranità, la sicurezza e l’integrità territoriale di altri paesi. Il conflitto militare non è la soluzione ai problemi e l’aumento delle tensioni regionali non è in linea con gli interessi collettivi della comunità internazionale.
Con questa dichiarazione il segretario generale del partito comunista cinese ha inteso sottolineare:
la “sacralità” del principio di sovranità, del quale un attacco, non provocato, a un altro paese, come quello israeliano all’Iran (ma anche quello all’Ucraina di un quasi-alleato della Cina, la Russia, ndr), rappresentano la violazione più grave e lampante;
la disponibilità della Cina a svolgere un ruolo attivo per favorire una immediata de-escalation tra Iran e Israele: ancora una volta, in una grave crisi internazionale, Pechino si presenta come paciera, mentre Washington si è schierata con Israele.
Nello stesso tempo il governo di Pechino ha intensificato gli sforzi per l’evacuazione di cittadini cinesi dall’Iran e da Israele, nel timore che il conflitto possa prolungarsi.
A marzo, Cina, Iran e Russia hanno condotto la loro quinta esercitazione militare congiunta - “Maritime Security Belt 2025” - nel Golfo di Oman che collega lo Stretto di Hormuz all’Oceano indiano, attraverso il quale passa oltre un quarto del greggio esportato nel mondo via mare, che dal Golfo Persico va a soddisfare soprattutto la sete di energia della Cina. Un traffico vitale che la guerra mette in pericolo, facendo salire il prezzo del petrolio.
Quel war game aveva messo in risalto il rafforzamento della cooperazione anche militare tra Pechino, Tehran e Mosca. La Repubblica popolare cinese e la Repubblica islamica sono legate da una partnership strategica. Tuttavia i rapporti economici sono marginali rispetto a quelli che la Cina ha con altri paesi: nel 2024, complessivamente 13,3 miliardi di dollari di interscambio mentre, ad esempio, l’anno scorso quello con la Russia è stato di circa 20 volte superiore (245 miliardi di dollari). Il greggio iraniano viene re-importato attraverso la Malesia per aggirare le sanzioni internazionali, ma Tehran non è che uno dei tanti fornitori della Cina.
Per quanto riguarda i legami politici, con l’allargamento del 1° gennaio 2024, l’Iran è entrata a far parte del gruppo di paesi Brics, mentre dall’anno precedente è membro della Shanghai Cooperation Organization (Sco), l’istituzione di cooperazione e sicurezza centro-asiatica a guida sino-russa.
Prima e dopo l’attacco israeliano scattato venerdì scorso, Pechino ha manifestato con decisione la sua contrarietà all’escalation. Il 12 giugno la Cina ha votato contro la risoluzione con la quale il board dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha condannato l’Iran per non aver rispettato i suoi obblighi di non proliferazione nucleare.
Il 14 marzo scorso Cina, Iran e Russia si erano riunite a Pechino proprio per discutere del programma nucleare iraniano, che, secondo Tehran, è a fini esclusivamente civili. In quella occasione il vice ministro degli esteri, Ma Zhaoxu, aveva dichiarato che «le parti interessate dovrebbero impegnarsi a eliminare le cause profonde della situazione attuale e ad abbandonare le sanzioni, le pressioni e le minacce di forza».
Pechino è interessata a mantenere la stabilità nella regione mediorientale, che non si limita più a fornire alla Cina la maggior parte delle sue importazioni di greggio. Negli ultimi anni il commercio bilaterale e gli investimenti ne e dalla regione sono aumentati a tal punto che, per i paesi del Golfo, si è parlato di “Pivot to Asia”, in quanto:
sono cresciuti gli investimenti in questi paesi, che vogliono dipendere meno dalle esportazioni di oro nero, nonché i loro investimenti in Cina;
è aumentato loro commercio bilaterale con la Cina;
il flusso di greggio verso la Cina si è mantenuto costante, malgrado il rallentamento della crescita della seconda economia del pianeta.
Secondo il think tank britannico Asia House, nel 2027 il commercio della Cina con i paesi del Golfo nel 2027 supererà quello con i paesi occidentali. Il commercio totale tra la Cina e l’intera regione del Medio Oriente e del Nord Africa (Mena) ha raggiunto i 505 miliardi di dollari nel 2022, con un incremento del 76 per cento in 10 anni.
Si tratta di un trend molto evidente in Cina, dove nelle comunità di stranieri nell’era post-Covid si è dimezzata la presenza degli occidentali mentre è cresciuta costantemente quella di businessman, lavoratori e studenti del Sud globale (inclusa l’area Mena).
L’area Mena è rientrata a pieno titolo nel quadro della più complessiva competizione tra Cina e Stati Uniti. E la crisi iraniana, fino all’attacco di Israele, ha rappresentato per la Cina un’opportunità per bissare il successo diplomatico del 10 marzo 2023, quando Iran e Arabia Saudita riallacciarono ufficialmente le relazioni diplomatiche sotto l’egida di Pechino proprio nella capitale cinese.
Sia la Cina sia la Russia - entrambe potenze nucleari - sono interessate infatti a impedire che anche l’Iran entri nel club dell’atomica, e dunque si sono proposte come mediatrici.
La Cina ha sempre sostenuto l’accordo nucleare del 2015, il Piano d’azione congiunto globale (JCPOA). Il patto, originariamente negoziato tra tutti e cinque i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e Teheran, pone una serie di limiti al programma nucleare iraniano che, sostanzialmente, dovrebbe essere limitato, controllato e non a scopi militari.
Pechino ha criticato il ritiro degli Stati Uniti dal patto l’8 maggio 2018 (durante la prima amministrazione Trump), opponendosi anche alle sanzioni americane contro l’Iran, mentre Teheran si è allontanata dai suoi impegni nucleari in seguito al ritiro degli Stati Uniti.
Da quando è ritornato alla Casa bianca, Trump ha ripreso la sua campagna di “massima pressione”, chiedendo al tesoro statunitense di imporre sanzioni all’Iran e di intensificarne l’applicazione. La scorsa settimana, il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato a Fox News di aver scritto alla guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, aggiungendo: «Ci sono due modi per gestire l’Iran: militarmente o con un accordo. Preferirei un accordo, perché non ho intenzione di danneggiare l’Iran».
E ieri Trump ha chiesto una «resa senza condizioni» dell’Iran, minacciando di colpire Khamenei, del quale - ha sostenuto - gli Stati Uniti conoscono il nascondiglio, ma che, “per ora”, non sarebbero intenzionati a uccidere. Un atteggiamento da far west che - come ha sottolineato Xi - “preoccupa profondamente” la Cina, non tanto per i toni, che sono quelli abituali di Trump, quanto per il caos che può diffondere nell’intera regione.
Di fronte alla volontà del governo presieduto da Benjamin Netanyahu di attaccare l’Iran col sostegno dell’amministrazione Trump, la reazione ufficiale cinese è stata dura. Venerdì, Fu Cong, l’ambasciatore cinese presso le Nazioni Unite, ha condannato gli attacchi di Israele, esortandolo a «cessare immediatamente ogni avventurismo militare». Il giorno successivo il ministro degli esteri, Wang Yi, ha chiamato il suo omologo Gideon Saar, al quale ha detto che «tali azioni sono particolarmente inaccettabili mentre la comunità internazionale sta ancora cercando una soluzione politica alla questione nucleare iraniana». Ma al quale ha anche offerto la mediazione di Pechino.
Sabato la Sco ha denunciato in un comunicato che gli attacchi israeliani «hanno gravemente violato i princìpi del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite, hanno minato la sovranità dell’Iran, la sicurezza regionale e internazionale e hanno avuto un grave impatto sulla pace e la stabilità globale».
Dopo l’eliminazione di diversi leader iraniani nei raid israeliani, i media ufficiali cinesi riferiscono di questo ennesimo conflitto mediorientale con grande prudenza, dando più spazio ad altre notizie di rilievo evidentemente minore.
Il timore di perdere l’Iran degli ayatollah, un partner che dopo la caduta di Saddam Hussein - buttato già dall’invasione americana dell’Iraq del 2003 - si è affermato come una potenza regionale, è grande. Nello stesso tempo Pechino deve bilanciare la difesa dei suoi interessi nell’area con i suoi rapporti bilaterali con gli Stati Uniti, puntando a un raffreddamento dello scontro commerciale e del complesso delle tensioni con la potenza che più teme e con la quale è in atto una partita globale.
La discesa in campo di Trump con le sue minacce a Tehran e il rafforzamento del dispositivo militare Usa a ridosso dell’Iran hanno tolto spazio ai tentativi negoziali di Pechino, per cui il rapporto con Washington viene prima di tutto.
È chiaro però che, dopo gli omicidi da parte di Israele di numerosi suoi leader, sulla Repubblica islamica incombe lo spettro del “regime change”, massima violazione di quel principio di “sovranità” che (assieme alla specifica rivendicazione di sovranità su Taiwan, attraverso il principio “Una sola Cina”) il Partito comunista cinese promuove come “sacro” e inviolabile (in qualsiasi condizione), a tutela del governo del partito unico, ininterrotto dalla vittoria maoista del 1949.
Nel momento in cui Israele e gli Stati Uniti sembrano voler infrangere questo “tabù” anche nei confronti di una potenza regionale, nata anch’essa da una rivoluzione, quella khomeinista del 1979, di fronte a un simile deterioramento del quadro internazionale, alla Cina non resta che continuare con la sua strategia, che si articola su tre fronti:
denuncia negli organismi internazionali della violazione del principio di sovranità da parte di Israele e critica al sostegno statunitense;
tentativo di rafforzamento del suo ruolo di “potenza responsabile” agli occhi del Sud globale e dei suoi governi interessati a un’alternativa al Washington consensus;
riarmo accelerato: la crescita del bilancio per la difesa di oltre il 7 per cento negli ultimi quattro anni (sempre maggiore di quella del prodotto interno lordo) e l’appello, ripetuto più volte dal 2019, da parte di Xi Jinping, a costruire un esercito «pronto a combattere, capace di combattere e in grado di vincere la guerra» servono proprio a scoraggiare l’idea che un giorno il governo della Repubblica popolare cinese possa essere attaccato come quello iraniano.
Grazie per questo utile supporto di informazioni, buon lavoro! AL