La posta in gioco a Taiwan; gli accordi economici siglati da Macron e Xi; il piano di ristrutturazione di Alibaba.
Il cambiamento della politica Usa nei confronti dell'Isola viene ignorato dai media, eppure è tra i principali fattori di attrito tra Pechino e Taipei
A partire da sabato 8 aprile, l’Esercito popolare di liberazione (Epl) ha condotto un’esercitazione nello Stretto di Taiwan - nome in codice “Spada affilata” -, conclusa ufficialmente lunedì scorso. In tre giorni di war game, undici corazzate (tra cui la “Shandong”, la prima portaerei made in China) e oltre cento sortite dei più moderni caccia con la stella rossa hanno circondato Taiwan dai quattro punti cardinali e simulato attacchi sull’Isola i cui filmati sono stati postati sui social dai comandi militari.
Si è trattato di un’altra prova di blocco navale e aereo dopo quella dell’estate scorsa. Allora a suscitare la risposta di Pechino era stata la visita a Taiwan (1-2 agosto 2022) della portavoce della Camera dei rappresentanti (terza carica dello stato Usa), Nancy Pelosi, questa volta quella della presidente taiwanese negli Stati Uniti, dove il 6 aprile scorso Tsai Ing-wen ha incontrato il successore di Pelosi, Kevin McCarthy.
È stato osservato che la precedente reazione militare durò una settimana, mentre “Spada affilata” solo tre giorni: l’ultima rappresaglia sarebbe stata più contenuta. Tuttavia Pechino si è opposta all’incontro tra Tsai e McCarthy non solo con le manovre di “Spada affilata”.
Il governo cinese ha varato sanzioni contro la rappresentante di Taiwan negli Usa, Hsiao Bi-khim, il think tank conservatore Hudson Institute e la biblioteca presidenziale “Ronald Reagan” di Simi Valley, in California, che hanno organizzato e ospitato il faccia a faccia Tsai-McCarthy; e contro la Prospect Foundation e il Council of Asian Liberals and Democrats, accusati di promuovere l’indipendenza di Taiwan.
Inoltre, incontrando giovedì scorso a Pechino Ursula von der Leyen, Xi ha avvertito la presidente della Commissione Ue che «è una pia illusione che la Cina possa fare concessioni su Taiwan» e «chi se le aspetta si dà una zappa sui piedi».
Da circa un anno la marina e l’aviazione cinese stanno esercitando una pressione militare senza precedenti intorno all’Isola. Si tratta anzitutto di “guerra psicologica”, con l’obiettivo di intimorire i taiwanesi, che a gennaio 2024 eleggeranno il nuovo presidente e i membri del parlamento: Tsai Ing-wen e il suo Partito progressista democratico (Dpp) vi stanno portando sull’orlo dell’abisso - è il messaggio lanciato da Pechino -, dunque meglio invertire la rotta votando per i nazionalisti del Kuomintang (concilianti con il partito comunista cinese).
Non a caso le esercitazioni di “Spada affilata” sono state precedute dal viaggio in Cina (negli stessi giorni di quello di Tsai negli Usa) di Ma Ying-jeou, primo ex presidente taiwanese (del Kuomintang) ad aver visitato la Repubblica popolare, un “viaggio di pace” utilizzato dalla propaganda come contraltare a quello della presidente taiwanese negli Stati Uniti.
D’altro canto i war game servono anche a preparare altri scenari, come una invasione di Taiwan e un blocco navale intorno all’Isola.
Nella prima ipotesi si tratterebbe di un’operazione estremamente complessa (per la conformazione del territorio taiwanese, perché le due sponde dello Stretto sono separate da circa 150 chilometri di mare, e per le capacità limitate dell’Epl) per la quale gli analisti militari più autorevoli concordano che l’Epl non è pronto.
Del resto anche un blocco navale - attuato magari dopo l’ascesa al potere di un nuovo governo del Dpp, nella fase di transizione da Biden al prossimo presidente Usa - avrebbe per Pechino la stessa catastrofica conseguenza di un conflitto: l’isolamento internazionale della Cina. Cioè di un paese di 1,4 miliardi di abitanti il cui sviluppo economico dipende ancora dall’export e dall’importazione di materie prime, che la sua leadership politica sta provando a riaprire il più possibile al mondo dopo le chiusure della pandemia.
In caso sia di attacco che di blocco navale la Cina risulterebbe un aggressore da emarginare non soltanto per i paesi occidentali, ma anche per molti suoi vicini asiatici e del Sud-est asiatico con i quali intrattiene fiorenti commerci ma ha anche contenziosi territoriali, sul confine indiano come nel Mar cinese meridionale e orientale.
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Eppure un’accelerazione dello scontro su Taiwan è ormai nei fatti, non soltanto per le manovre di Pechino, ma anche per il cambiamento da parte degli Usa - unilaterale e non ufficializzato - della loro tradizionale politica su Taiwan (racchiusa nel Comunicato congiunto di Shanghai del 1972 e nel Taiwan Relations Act del 1979): c’è una sola Cina, della quale Taiwan è parte; le forniture di armi Usa a Taiwan devono essere limitate, e solo a scopo difensivo. Nel momento in cui a Washington hanno iniziato a considerare la questione taiwanese una parte della più ampia rivalità strategica tra Cina e Stati Uniti, a utilizzarla come un elemento del loro containment anti-Cina, è saltato il compromesso che, bene o male, ha mantenuto per decenni la pace e favorito gli scambi tra le due sponde dello Stretto.
Nel giro di pochi giorni, al secondo incontro in otto mesi di Tsai con rappresentanti delle istituzioni statunitensi, quello di più alto profilo dal 1979 per un leader taiwanese sul suolo Usa (con McCarthy e altri 17 parlamentari di entrambi gli schieramenti), è seguito il viaggio a Taiwan di una delegazione bipartisan di altri otto congressmen, guidata per la prima volta negli ultimi 44 anni da un presidente della Commissione affari esteri della Camera. Michael McCaul ha assicurato che i missili anti-aerei made in Usa, in ritardo a causa della guerra in Ucraina, arriveranno presto sull’Isola.
Pechino difende a oltranza l’idea secondo la quale esiste “una sola Cina”, uno dei pilastri della legittimità del partito comunista cinese, che dal 1949 non ha mai rinunciato a “riunificare”, se necessario anche con la forza, l’Isola dove istituirono il loro governo i nazionalisti sconfitti nella guerra civile.
Secondo l’interpretazione che la leadership cinese dà di questo principio, chi negli ultimi decenni ha riconosciuto la Rpc come unica rappresentante ufficiale di tutto il territorio cinese (l’intera comunità internazionale, tranne 13 staterelli che riconoscono la “Repubblica di Cina”, Taiwan), non dovrebbe avere relazioni ufficiali con i rappresentanti della democrazia taiwanese.
Su Taiwan tra Pechino e Washington è in corso un pericolosissimo dialogo tra sordi: da una parte l’aumento della pressione militare sull’Isola, dall’altra un cambiamento di fatto della politica che aveva permesso il rapprochement con e poi il riconoscimento della Repubblica popolare cinese (in funzione anti-sovietica), attraverso il sostegno politico sempre più esplicito a Taiwan e forniture e assistenza militare sempre più sostanziose all’Isola. Intervistato dalla Fox, il senatore Lindsey Graham ha invitato Washington a rompere con la “ambiguità strategica” e a dichiarare che gli Stati Uniti interverrebbero a difesa di Taiwan in caso di blocco navale o attacco da parte di Pechino.
Mentre il ministro degli esteri, Joseph Wu, ha annunciato che entro la fine dell’anno potrebbe essere raggiunto un accordo con Washington per la creazione di un’area di libero scambio tra Taiwan e gli Stati Uniti. Di sicuro quelli che attendono l’Isola da qui al voto del 2024 saranno mesi molto difficili.
Sulla Cina può esistere una “autonomia strategica” dell’Europa, oppure Macron promuove soltanto affari?
Del significato politico della visita di stato in Cina di Emmanuel Macron (5-7 aprile) abbiamo parlato nell’ultimo numero di Rassegna Cina, “Guerra in Ucraina ed embargo tecnologico, Macron a Pechino si smarca da Washington: no a spirale di tensioni Occidente-Cina”. Il giorno successivo alla pubblicazione della newsletter, il presidente francese, sull’aereo che da Pechino lo ha condotto a Guangzhou, si è espresso in maniera molto diretta, sostenendo che l’Europa non dovrebbe essere “vassalla” degli Stati Uniti. Macron - che non è riuscito a promuoverla in Europa in occasione della guerra tra Russia e Ucraina - ha riproposto la sua “autonomia strategica” dell’Ue per lo scontro tra Stati Uniti e Cina su Taiwan. «È nel nostro interesse accelerare sul tema Taiwan? No. La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dobbiamo inseguire su questo tema, adattandoci al ritmo americano e a una reazione eccessiva cinese», ha dichiarato Macron ai giornalisti che lo accompagnavano in aereo.
Le parole dell’inquilino dell’Eliseo hanno suscitato un mare di polemiche e critiche all’interno delle istituzioni comunitarie. Oggi è atteso in Cina l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, col compito di rettificare le affermazioni di Macron, spiegando ai leader cinesi che quella del presidente francese non è la linea della Ue. «Non esiste un aiuto militare fornito dai membri dell’UE a Taiwan come quello degli Stati Uniti. Detto questo, siamo fortemente impegnati in e con Taiwan, che ha un’economia molto forte e una democrazia molto fiorente», ha sottolineato un alto funzionario dell’UE alla vigilia del viaggio di Borrell.
Tuttavia mercoledì 12 aprile Macron ha chiarito le sue affermazioni, aggiungendo che «la Francia è per il mantenimento dello status quo a Taiwan» (dunque contraria al cambiamento di politica impresso dagli Stati Uniti) e «favorevole a una soluzione pacifica della situazione».
Per quanto riguarda invece gli aspetti economici della visita di Macron a Pechino e Guangzhou, a margine degli incontri con il presidente cinese, Xi Jinping, sono state firmate importanti intese bilaterali su commercio e investimenti, in tutto 18 accordi di cooperazione tra 36 compagnie cinesi e francesi.
Con la “Dichiarazione congiunta tra la Repubblica francese e la Repubblica popolare cinese” Xi e Macron hanno rilanciato la partnership tra i due paesi, in linea con quanto convenuto in precedenti documenti sottoscritti nel 2018 e 2019 (prima della pandemia). Si tratta di una dichiarazione d’intenti in 51 punti, che contiene una serie d’impegni reciproci, tra i quali quello ad assicurare la sicurezza della centrale atomica ucraina di Zaporizhzhia e quello a sostenere la domanda di adesione della Cina all’Organizzazione internazionale della vigna e del vino (Oiv).
Di seguito una lista dei principali accordi siglati dalle compagnie francesi in Cina:
Airbus Il consorzio dell’aviazione con sede a Blagnac raddoppierà la capacità produttiva in Cina grazie a una seconda linea d’assemblaggio a Tianjin, la cui entrata in funzione è prevista per il secondo semestre 2025. L’aumento del traffico aereo in Cina è stimato al 5,3% in media nei prossimi 20 anni, contro il 3,6% di quello globale. Airbus ha inoltre siglato un contratto per la vendita alla Cina di 50 elicotteri H160. Airbus, che ha recentemente scavalcato la statunitense Boeing come primo fornitore della Cina, ha ottenuto il via libera per la vendita di 160 aerei sui quali era stato raggiunto un accordo in precedenza, ma non ha ottenuto nuove commesse.
EDF Il gruppo energetico EDF e il colosso nucleare cinese CGN hanno rinnovato il loro accordo di partnership globale (in vigore dal 2007) che ha consentito la costruzione dell’unica centrale atomica EPR attualmente in servizio al mondo, a Taishan, nel sud della Cina. L’utility francese Électricité de France (EDF) ha deciso di portare avanti le sue iniziative di energia a basse emissioni di carbonio in Cina, ampliando la sua cooperazione con il partner cinese China Energy Investment (CEI) per costruire «un progetto pilota globale di un’isola energetica intelligente offshore» che integrerà impianti eolici, solari, di idrogeno e di stoccaggio di energia al largo della città di Dongtai, nella parte settentrionale della provincia del Jiangsu, con una capacità totale di 15 gigawatt. Le due società gestiscono attualmente un parco eolico offshore da 500 MW a Donghai. Il progetto da 1,14 miliardi di dollari ha generato 3,5 miliardi di chilowattora di elettricità fino alla fine di marzo.
CMA-CGN L’armatore marsigliese CMA-CGM, numero tre al mondo, ha firmato un ordine con China State Shipbuilding Corporation, che costruirà 16 portacontainer del valore complessivo di oltre 3 miliardi di dollari. Quello che è il più grande ordine singolo di portacontainer mai effettuato in Cina comprende 12 navi da 15.000 TEU alimentate a metanolo dual-fuel e quattro navi da 23.000 TEU alimentate a GNL dual-fuel. Le navi da 15.000 TEU saranno costruite da Jiangnan Shipbuilding e Dalian Shipbuilding, entrambe parte di CSSC. Misureranno 366 metri di lunghezza con un raggio di 51 metri. Le navi da 23.000 TEU saranno costruite dai cantieri navali CSSC e misureranno 399,9 metri di lunghezza con una larghezza di 61,3 metri.
SUEZ SUEZ e i suoi partner cinesi, Wanhua Chemical Group (Wanhua) e China Railway Shanghai Engineering Bureau Group (CRSH), hanno firmato un accordo di cooperazione per un progetto di desalinizzazione dell’acqua di mare per applicazioni industriali. SUEZ progetterà e costruirà un impianto di dissalazione a osmosi inversa dell’acqua di mare (SWRO) da 100 MLD (milioni di litri/giorno) nel distretto di Penglai, nella città di Yantai (nella provincia dello Shandong).
L’ORÉAL Il colosso cinese del commercio elettronico Alibaba Group ha siglato una partnership triennale con la più grande azienda di cosmetici al mondo, L’Oréal, per promuovere una economia circolare nel settore della bellezza cinese. La partnership, che durerà fino al 2025, mira a fissare stabilire standard ecosostenibili e a basse emissioni di carbonio, sviluppare nuovi prodotti e creare soluzioni di economia circolare misurabili nel settore cinese della bellezza e della cura della persona, che genera un volume d’affari da 87 miliardi di dollari.
AGROALIMENTARE Il settore francese delle carni suine ha ottenuto 15 nuove autorizzazioni dalle autorità cinesi per aumentare le esportazioni verso la Cina, dove la carne di maiale è di gran lunga la più consumata, alimento base in molti piatti.
VERSAILLES E CITTÀ PROIBITA La Reggia di Versailles e la Città Proibita hanno concordato una mostra in Cina il prossimo anno, in occasione del 60esimo anniversario dell’instaurazione delle relazioni diplomatiche tra Francia e Cina: 150 oggetti delle collezioni di Versailles saranno così presentati al pubblico cinese per rievocare gli scambi tra i due paesi nel XVIII secolo.
Alibaba si fa in sei per evitare altre punizioni antitrust
e diventa il testimonial delle politiche della nuova leadership di Pechino a sostegno del settore privato
Dopo l’ultimo biennio segnato da rapporti burrascosi con il potere politico, Alibaba ha varato il più importante piano di ristrutturazione dalla sua nascita. La compagnia creata nel 1999 da Jack Ma (un impero del valore di 257 miliardi di dollari e 200.000 dipendenti) sarà divisa in sei aziende separate, ognuna delle quali con il suo cda e il suo amministratore delegato. Le sei nuove entità si occuperanno di:
commercio elettronico (Taobao Tmall Commerce Group) - attualmente il 70% del fatturato - che sarà affidato a Trudy Dai, nel gruppo dei fondatori assieme a Jack Ma;
cloud e intelligenza artificiale (Cloud Intelligence Group), che sarà guidato da Daniel Zhang Yong: si tratta del settore più promettente, nel quale Alibaba ha già un grosso vantaggio competitivo rispetto alle concorrenti;
logistica (Cainiao Network);
media e intrattenimento (Digital Media and Entertainment Group), proprietario, tra l’altro, del quotidiano hongkonghese South China Morning Post;
commercio internazionale (Global Digital Business Group), che sarà guidato da Jiang Fang;
servizi (Local Services Group).
Secondo il comunicato con il quale, il 28 marzo scorso, la compagnia ha annunciato la radicale riorganizzazione, a capo della holding ci sarà Daniel Zhang Yong. Il manager cinquantunenne (attualmente amministratore delegato di Alibaba) però devolverà tutte le decisioni operative agli ad e ai consigli di amministrazione delle diverse unità, ciascuna delle quali sarà autonoma anche per quanto riguarda la raccolta di capitali e la quotazione nei mercati azionari. Tuttavia, come ha chiarito lo stesso Zhang, «Alibaba diventerà una holding che è azionista di controllo di ciascuna società», e continueranno a esserci sinergie tra le sei nuove compagnie.
Secondo Zhang:
Questa trasformazione consentirà a tutte le nostre aziende di diventare più agili, migliorare il processo decisionale e consentire risposte più rapide ai cambiamenti del mercato. Con questo cambiamento, le funzioni di middle e back office di Alibaba saranno ridotte, mentre verranno mantenute solo le funzioni richieste per la conformità delle società quotate. Se le filiali possono concentrarsi sulle proprie attività, ciò le aiuterà a essere più professionali nei loro servizi. La ristrutturazione le aiuterà anche a catturare l’ondata di nuove tecnologie... Gli aggiornamenti tecnologici e le iterazioni dei prodotti saranno rapidi.
La profonda ristrutturazione della governance di Alibaba, oltre che a logiche aziendali, risponde alla necessità di adeguarsi alle politiche anti-monopolio varate da Pechino. Nel 2021 l’antitrust cinese ha comminato ad Alibaba una multa da 2,8 miliardi di dollari per “vantaggio competitivo improprio”, ovvero la posizione di monopolio conquistata anche vietando ai venditori di esporre i loro prodotti su negozi online della concorrenza. Grazie alla divisione in sei unità Alibaba punta a rassicurare il governo che negli ultimi due anni si è attivato per ridurre dimensione e influenza della creatura di Jack Ma. Questo, insieme al ritorno di Ma in Cina, dopo un anno all’estero, ha mandato al mercato il segnale che l’azienda ha ricucito lo strappo con il governo, rimuovendo l’ostacolo maggiore per riprendere a crescere, mentre altre grandi aziende cinesi del settore hi-tech potrebbero seguire il modello Alibaba per evitare contenziosi con l’antitrust.
Nel novembre 2020 le autorità di Pechino bloccarono all’ultimo minuto la quotazione in borsa di Ant Financial, grazie alla quale Jack Ma puntava a raccogliere 37 miliardi di dollari, inaugurando una fase di rigido controllo governativo durante la quale le azioni Alibaba sono scese di circa l’80% in due anni, fino allo scorso ottobre.
In sostanza il piano di ristrutturazione di quella che è una delle più importanti aziende del paese e il rientro in Cina di Ma (pubblicizzato dai media ufficiali, per dare l’impressione che la ristrutturazione avverrà con la benedizione del magnate) vanno letti nell’ambito delle mosse della nuova leadership politica uscita dal XX congresso del partito comunista e dalla riunione dell’Assemblea nazionale del popolo, che il mese scorso ha eletto il nuovo premier Li Qiang di rivitalizzare il settore privato pesantemente colpito dai lockdown e dalle misure regolatorie nel 2021-2022.
Per effetto del rallentamento indotto dalle restrizioni governative e delle chiusure per contenere la pandemia, nel 2022 Alibaba ha tagliato circa 20.000 posti di lavoro. Ma il nuovo clima politico sta spingendo molti investitori stranieri a rientrare nel mercato cinese, attratti dalla ripresa economica e dai prezzi delle azioni delle compagnie cinesi, che promettono di crescere nei prossimi mesi.
Non è immediatamente chiaro quanto supporto fornirà la holding in futuro, ma l’obiettivo finale è che le unità si quotino in modo indipendente. Secondo Shawn Yang, amministratore delegato di Blue Lotus Research Institute, potrebbe esserci qualche «dolore temporaneo» perché tutte le sue imprese più piccole hanno sempre fatto affidamento su Alibaba. «Nessuno sa quale funzionerà relativamente bene quando saranno messe tutte sul mercato», ha concluso Yang.
Penso che sia nell'interesse della pace nondiale che gli Stati Uniti mantengano la posizione di " ambiguità strategica" , un assetto pragmatico che ha conservato la pace e consentito lo sviluppo di floride relazioni tra le due sponde dello Stretto. Non deve essere Putin e la sua guerra di aggressione a destabilizzare il mondo, non dobbiamo permetterlo, sarebbe la sua vittoria, quella che non riesce ad ottenere, prr firtuna, suo campi di battaglia.