Luci e ombre del Pil del primo trimestre (+4,5%); Macron Pilato e l'Ue impotente su Taiwan; l'India ha più abitanti della Cina
I consumi non decollano e l'economia cinese continua a dipendere dall'export e dagli investimenti in una fase di accentuata competizione internazionale
Il prodotto interno lordo della Cina è cresciuto del 4,5% nel primo trimestre di quest’anno. I dati pubblicati martedì 18 aprile dall’Ufficio nazionale di statistica (Nbs) vengono interpretati come un «buon inizio» per la ripresa, “intorno al 5%”, prevista dal governo per il 2023. Tuttavia - ha dichiarato Fu Linghui - «dobbiamo essere consapevoli che la situazione all’estero è complessa e instabile, la domanda interna è insufficiente e le basi per la ripresa economica non sono ancora solide». Il portavoce del Nbs ha aggiunto che «il protezionismo e rischi geopolitici hanno accresciuto ulteriormente la volatilità, l’incertezza e le difficoltà dell’economia mondiale».
Le statistiche di gennaio-marzo 2023 sono relative all’attività economica del periodo immediatamente successivo alla rimozione delle restrizioni anti-Covid. Le cifre ufficiali dicono che il Pil è aumentato più velocemente del trimestre precedente (+2,9%) e che ha superato le previsioni degli analisti, che oscillavano tra il 3,8% e il 4%. Secondo il Fondo monetario internazionale, il Pil della Cina quest’anno sarà +5,2%, un terzo della crescita globale.
Di seguito i dati del Nbs su alcuni degli indicatori più rilevanti:
gli investimenti in capitale fisso sono aumentati del 5,1% nel primo trimestre 2023, meno sia delle previsioni (+5,7%) sia del bimestre gennaio-febbraio 2023 (+5,5);
gli investimenti infrastrutturali hanno fatto registrare un +8,8% nel periodo gennaio-marzo 2023;
gli investimenti manifatturieri sono cresciuti del 7% nel primo trimestre 2023;
gli investimenti del settore immobiliare (circa un quarto dell’economia della Cina) sono diminuiti del 5,8% nei primi tre mesi di quest’anno;
le vendite al dettaglio sono aumentate del 10,6% a marzo 2023 - e i consumi hanno rappresentato due terzi del Pil della Cina nel primo trimestre;
il valore aggiunto della produzione industriale è cresciuto del 3,9% a marzo (+2,4% nel bimestre gennaio-febbraio).
Come dicevamo, il governo di Pechino ha stimato per il 2023 un prodotto interno lordo “intorno al 5%”. Si tratta di una crescita modesta, calcolata sulla base del +3% dell’anno precedente, il secondo peggior risultato degli ultimi 50 anni. Come si evince dal grafico qui sopra, la crescita della Cina è entrata in una nuova fase di rallentamento: dopo quella (coincidente con l’ascesa al potere di Xi Jinping) che ha visto la fine della “iper-crescita” e il passaggio a un Pil introno al 7% durante il periodo 2011-2019, la pandemia di Covid-19 ne ha determinato un ulteriore abbassamento, intorno al 4,5%.
A marzo le esportazioni sono aumentate del 14,8% rispetto allo stesso periodo del 2022, in parte per il recupero degli ordini inevasi per le chiusure anti-Covid. In testa alle destinazioni dell’export c’è il primo partner commerciale della Cina, i dieci paesi dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean), verso i quali l’aumento è stato del 35,4%.
Nel 2022, le esportazioni verso l’Unione Europea, gli Stati Uniti e il Giappone (i principali partner commerciali della Cina tra le economie avanzate), hanno rappresentato il 36,6% del complesso dell’export di Pechino. Ma un ruolo sempre più rilevante stanno avendo quelle verso la nuova via della Seta (Bri), che comprende i paesi dell'Asean, che l’anno scorso hanno rappresentato il 32,9% del totale.
Il +4,5% del Pil del primo trimestre 2023 e il +10,6 delle vendite al dettaglio del mese scorso sono calcolati su una base di riferimento molto bassa (l’inizio del 2022, segnato dalle chiusure anti-Covid) e non cancellano le preoccupazioni dei policymaker cinesi per il persistere di due fenomeni negativi: la debolezza (strutturale) dei consumi delle famiglie e della domanda dall’estero.
La Cina sta entrando in una fase di “deflazione atipica”, cioè di calo dei prezzi durante una ripresa economica. Dopo il taglio (in vigore dallo scorso 27 maro), del coefficiente di riserva obbligatorio (Rrr) delle banche, la Banca centrale ritiene che ogni ulteriore riduzione non riuscirebbe a stimolare i consumi. La liquidità liberata dall’ultimo ribasso del Rrr (500 miliardi di Yuan) è stata infatti incanalata verso i grandi progetti infrastrutturali, gli investimenti manifatturieri e altri settori che Pechino considera strategici. Nel primo trimestre 2023, i prestiti alle famiglie sono diminuiti (16%) rispetto al 2022 (18%).
La disoccupazione urbana, al 5,6% a febbraio, a marzo è scesa al 5,3% su base annua. Ma resta particolarmente elevata quella giovanile (nella fascia di popolazione 16-24 anni), in aumento dal 18,1% a febbraio al 19,6% il mese scorso. Mentre molti studenti usciti dall’università nel 2022 non hanno ancora trovato un impiego, quest’anno la Cina registrerà il suo nuovo record di laureati: 11,58 milioni, che andranno ad aumentare la pressione nel mercato del lavoro.
In questa difficile situazione il governo deve puntare sull’aumento dei consumi interni. Mercoledì 19 aprile la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma (Ndrc) ha annunciato che sta lavorando a un piano incentrato sui consumi di lusso, sui servizi e sull’espansione dei consumi nelle aree rurali.
Ma secondo Zhang Ming, economista dell’Accademia cinese di scienze sociali, «L’obiettivo delle politiche macroeconomiche non è ancora passato dalla protezione degli operatori di mercato dal lato dell’offerta, alla protezione delle famiglie a basso e medio reddito dal lato della domanda».
Taiwan, perché Macron (e non solo lui) vorrebbe lavarsene le mani
L’uscita di Emmanuel Macron sulla necessità per l’Unione Europea di sviluppare una “autonomia strategica” e - a proposito di Taiwan - di non seguire gli Stati Uniti, per non «rimanere intrappolati in crisi che non sono nostre» ha acceso il dibattito sulle relazioni tra Bruxelles, Pechino e Washington.
Martedì 18 aprile, Ursula von der Leyen ha bacchettato il presidente francese davanti al parlamento europeo. «Una politica europea forte sulla Cina si basa su uno stretto coordinamento tra gli stati membri e le istituzioni dell’Ue e sulla volontà di evitare le tattiche di divide et impera (da parte della Cina, ndr) che sappiamo di dover affrontare», ha puntualizzato la presidente della Commissione Ue in un discorso pronunciato a Strasburgo.
Su Taiwan, von der Leyen ha ricordato il sostegno dell’Ue alla politica “Una sola Cina”, che riconosce ufficialmente un solo governo per l’intero territorio della Cina, quello della Repubblica popolare cinese, ma - ha aggiunto - «continuiamo a invocare la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan e ci opponiamo fermamente a qualsiasi modifica unilaterale dello status quo, in particolare mediante l’uso della forza». «Credo che possiamo - e dobbiamo - ritagliarci un nostro approccio europeo distinto che ci lasci anche spazio per cooperare con altri partner», ha detto ancora von der Leyen.
L’intervista di Macron a POLITICO del 9 aprile scorso ha fatto venire a galla anche le contraddizioni all’interno della coalizione (socialdemocratici, verdi, liberali) che governa la Germania, per la quale la Cina nel 2022 si è confermata, per il settimo anno consecutivo, il principale partner commerciale (298 miliardi di euro, +21%).
Alla vigilia della missione in Cina della ministra degli esteri, Annalena Baerbock - che a Pechino ha ricordato che «un’escalation militare nello Stretto di Taiwan, attraverso il quale passa ogni giorno il 50% del commercio mondiale, sarebbe uno scenario orribile per il mondo intero, con inevitabili ripercussioni per gli interessi europei» -, il capogruppo dei socialdemocratici al Bundestag ha dichiarato che «Macron ha ragione». Il 12 aprile, Rolf Mützenich ha ripetuto i concetti espressi dal presidente francese: «Dobbiamo stare attenti a non diventare parte di un grande conflitto tra gli Stati Uniti e la Repubblica popolare cinese», ha dichiarato all’emittente ARD il 12 aprile scorso.
Macron e Mützenich hanno palesato il disagio che cova in alcuni settori della élite politica europea. C’è il forte timore che gli elettori statunitensi possano regalare a Donald Trump un secondo mandato alle presidenziali del 5 novembre 2024. E anche stanchezza per la guerra in Ucraina (alla vigilia della quale la “autonomia strategica” di Macron non è riuscita a fermare Putin), un conflitto in Europa le risposte al quale sono state dettate da Washington e dalla Nato. Ma anche la perplessità per le mosse dell’amministrazione Biden nell’Indo-Pacifico. E in particolare su Taiwan, che secondo Lee Hsien Loong, rappresenta il «punto di rottura più pericoloso» della rivalità tra Cina e Stati Uniti. In un discorso pronunciato in parlamento mercoledì 18 aprile il premier di Singapore (tra i più autorevoli osservatori delle relazioni sino-statunitensi) ha parlato di «prospettive molto preoccupanti». «La Cina considera Taiwan come la questione più importante e il principio “Una sola Cina” come la più rossa delle sue linee rosse», ha detto Lee, riferendosi al recente incontro negli Stati Uniti tra la presidente taiwanese, Tsai Ing-wen, e lo speaker della Camera, Kevin McCarthy, e alle successive esercitazioni dell’Esercito popolare di liberazione intorno a Taiwan.
L’Unione Europea non ha la capacità di frenare l’accelerazione dello scontro tra Stati Uniti e Cina, i due protagonisti assoluti di questa corsa verso il baratro che rischia di avere ripercussioni globali.
Infatti la Repubblica popolare cinese rivendica da sempre la sua sovranità sull’isola: per qualsiasi leader cinese rinunciarvi vorrebbe dire perdere la faccia. Incontrando a Pechino von der Leyen alla vigilia del war game dell’8-10 aprile scorso, Xi ha avvertito la presidente della Commissione Ue che «è una pia illusione che la Cina possa fare concessioni su Taiwan» e «chi se le aspetta si dà una zappa sui piedi».
D’altro canto Washington - a partire dal 1954 con il Trattato di difesa comune sino-americano con la Taiwan di Chiang Kai-shek e poi, dal 1979, con la nuova politica del “Taiwan Relations Act” contestuale al riconoscimento Usa della Repubblica popolare cinese, si è affermata come unica protettrice delle autorità di Taiwan. La presenza nell’area della VII flotta degli Stati Uniti e le partnership di difesa guidate da Washington nell’Indo-Pacifico con Australia e Regno Unito (Aukus) e con Giappone, India e Australia (Quad) fanno degli Stati Uniti l’unico “arbitro” della contesa tra la Repubblica popolare cinese e Taiwan.
In tale contesto, le affermazioni sia di Macron sia di Mützenich sono comprensibili alla luce del cambiamento (unilaterale, non dichiarato, e non ufficiale) da parte di Washington della sua tradizionale politica su Taiwan. E rivelano l’impotenza europea. In assenza di leadership forti, a partire da quella francese, nei paesi più influenti, nonché di una vera politica estera comune, sia Macron sia di Mützenich suggeriscono proprio questo: sulle mosse degli Stati Uniti su Taiwan non c’è alcuna possibilità di interlocuzione con l’alleato potenza egemone nel Pacifico. Dunque - è il ragionamento dei due - l’Europa deve tenersi fuori da una crisi che non è sua.
Intanto i pilastri della politica Usa sottoscritti nel Comunicato di Shanghai del 1972, nel Taiwan Relations Act del 1979 e nei Tre comunicati vengono terremotati dalla decisione degli Stati Uniti - presa già dall’amministrazione Trump e condivisa da Biden - di trasformare Taiwan in un “porcospino” e dai continui incontri ufficiali ai massimi livelli tra politici taiwanesi e statunitensi. La politica Usa su Taiwan come venne reimpostata al fine di stabilire relazioni ufficiali con la Repubblica popolare cinese è finita intrappolata nella competizione strategica Cina-Stati Uniti. E a Pechino c’è chi inizia a ritenere che le linee rosse della Cina siano già state superate.
Negli ultimi giorni l’agenzia di stampa taiwanese CNA ha riferito che sull’Isola operano circa 200 istruttori militari statunitensi, per addestrare il personale militare locale. Gli input dei consiglieri americani saranno successivamente utilizzati per aiutare Taiwan quando (l’anno prossimo) il servizio militare obbligatorio verrà esteso dagli attuali quattro mesi a un anno.
E Taiwan acquisterà dagli Stati Uniti fino a 400 missili Harpoon, prodotti da Boeing. Il 7 aprile scorso il Pentagono ha annunciato un contratto da 1,17 miliardi di dollari per 400 missili anti-nave la cui produzione dovrebbe essere completata entro marzo 2029. Il Pentagono ha rifiutato di commentare direttamente l’accordo, ma ha affermato: «Gli Stati Uniti mettono a disposizione di Taiwan materiale e servizi per la difesa necessari per consentirle di mantenere una sufficiente capacità di autodifesa».
Demografia, il sorpasso indiano e i problemi irrisolti della Cina
La Cina si appresta a perdere il primato di nazione più popolosa del pianeta, che detiene almeno dal 1950, quando furono pubblicati per la prima volta i dati della Nazioni Unite sulla popolazione mondiale? A quanto pare è proprio così. Infatti l’ultimo Rapporto sullo stato della popolazione mondiale del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa) pubblicato mercoledì 19 aprile stima la popolazione indiana a metà 2023 in 1,4286 miliardi di persone, contro gli 1,4257 miliardi di persone in Cina (2,9 milioni in meno).
Si tratta di dati ancora imprecisi, perché il censimento decennale indiano, previsto per il 2021, è stato rinviato a causa della pandemia di Covid-19. Come che sia, la somma di quella cinese e indiana ammonta a un terzo della popolazione globale (8 miliardi di persone) nonostante la natalità stia calando in entrambi i paesi asiatici (in Cina molto più velocemente che in India). Nel 2022 la popolazione cinese è diminuita per la prima volta negli ultimi 60 anni, passando da 1,4126 miliardi (nel 2021) a 1,4118 miliardi di persone.
A determinare il crollo della natalità in Cina (6,77 neonati ogni mille abitanti e un tasso di fertilità pari a 1,18 nel 2022) contribuisce una società divenuta molto competitiva e le relative disuguaglianze, di reddito e di ricchezza. Li Keqiang ha ricordato che ci sono 600.000 cinesi «il cui reddito mensile è di appena 1.000 yuan» (136 euro). «Non basta nemmeno per affittare una stanza in una città cinese di medie dimensioni», ha puntualizzato l’ex premier. Per questo diminuiscono i matrimoni, mentre la classe media - in una fase di incertezza economica - non è disposta a ridimensionare il suo tenore di vita allargando la famiglia.
Inoltre si fa sentire ancora l’onda lunga della politica del figlio unico, che ha accompagnato le riforme di mercato dalla fine degli anni Settanta, ed è stata abbandonata solo nel 2016, quando a tutti i cinesi è stato permesso di avere un secondo bebè. La crisi demografica era ormai conclamata, tanto che nel 2021 il governo ha dato il via libera anche al terzo. È ancora presto per valutarne l’effetto, ma queste liberalizzazioni, così come gli incentivi finanziari dei governi locali, finora, non hanno dato i risultati sperati.
Il combinato disposto del crollo della natalità e dell’aumento dell’aspettativa di vita (78,2 anni nel 2021) avrà inevitabili ripercussioni sulle casse dello stato e sull’economia. Nei prossimi anni il governo dovrà potenziare il fragile sistema sanitario nonché gli assegni pensionistici: sarà inevitabile tassare di più i ricchi, ma anche la classe media. E dovrebbe essere reso noto quest’anno un potenzialmente assai impopolare piano governativo per la riforma dell’età pensionabile, attualmente 60 anni per gli uomini, 55 per le donne e 50 per le operaie (tra le più basse del mondo).
I cinesi in età lavorativa raggiunsero il picco nel 2013, con 1.005.820.000 unità. Il “dividendo demografico” (il potenziale di crescita economica favorito dalla prevalenza della popolazione in età lavorativa su quella inattiva) che nel corso degli anni Ottanta, Novanta e nel primo decennio del Duemila aveva assicurato un costante ricambio di manodopera, da allora ha iniziato ad assottigliarsi.
I cinesi in età lavorativa nel 2022 erano 875,56 milioni, il 62 per cento della popolazione, in calo rispetto al 62,5 per cento dell’anno precedente.
La Cina, che ha scelto di puntare anche la prossima fase del suo sviluppo sulla manifattura - rincorrendo quella dei paesi avanzati -, è davanti a un bivio: in futuro dovrà importare centinaia di milioni di lavoratori stranieri (scelta altamente improponibile) oppure delocalizzare sempre più industrie nei paesi vicini, a cominciare da quelli del Sud-est asiatico, e aumentare notevolmente la produttività in patria.