Meloni in Cina, il bilancio della missione
Pechino cerca sponde "sovraniste" per arginare il "de-risking" della Commissione von der Leyen
Buongiorno da Shanghai.
Si è conclusa la visita ufficiale (28-31 luglio) di Giorgia Meloni in Cina, con la quale il governo italiano ha provato a “rilanciare” le relazioni bilaterali con la Repubblica popolare cinese dopo lo strappo - una decisione politica della stessa presidente del Consiglio - del rifiuto di rinnovare il memorandum sulla nuova via della Seta sottoscritto nel 2019 dal Conte I.
La durata del viaggio e gli incontri avuti da Meloni testimoniano della rilevanza che l’esecutivo e la diplomazia hanno attribuito a questa missione. La leader di Fratelli d’Italia ha avuto faccia a faccia con i primi tre dei sette membri del comitato permanente dell’ufficio politico del Partito comunista cinese (il governo di fatto del paese): Xi Jinping, Li Qiang e Zhao Leji. Inoltre a Shanghai ha visto il segretario locale dello stesso Pcc, Chen Jining.
Nella Grande sala del popolo di piazza Tiananmen la presidente del Consiglio ha partecipato al Business Forum Italia-Cina (28-29 luglio), organizzato dal ministero degli Esteri, con la partecipazione, tra gli altri, di Confindustria e dell’Agenzia ICE. È stata l’occasione - alla presenza del premier Li Qiang - per avanzare le proposte italiane per approfondire le relazioni bilaterali.
Il governo punta essenzialmente a due obiettivi:
attirare investimenti cinesi per sostenere la crescita in Italia (Meloni ha sottolineato che all’entità degli investimenti italiani in Cina non corrisponde in Italia capitale produttivo cinese altrettanto rilevante);
ridurre il massiccio deficit commerciale dell’Italia nei confronti della Cina (circa 19 miliardi di export contro quasi 47 miliardi di importazioni nel 2023), un disavanzo nel quale è tuttavia compresa la componentistica che viene importata dalla Cina per finire nei prodotti made in Italy.
Il berlusconiano Partenariato strategico globale che Meloni ha rispolverato per “sostituire” il memorandum sulla via della Seta così come il piano d’azione triennale per il rafforzamento del partenariato strategico Italia-Cina e il memorandum appena sottoscritto tra il ministero dell’industria e del made in Italy e il ministero dell’industria e dell’informatica di Pechino rappresentano delle indicazioni di massima sulle politiche da intraprendere.
Nel suo intervento al Business Forum Meloni ha sottolineato la necessità di:
«tenere presente l’esigenza della proporzionalità, per fare sì che gli strumenti di difesa economica siano commisurati al reale livello di rischio e non producano una compressione involontaria della libertà economica e commerciale anche internazionale, principio che è tratto distintivo di una democrazia come l’Italia e di una società aperta come la nostra».
«La nostra nazione chiaramente resta desiderosa di cooperare. È ovviamente fondamentale per noi che i nostri partner si dimostrino genuinamente cooperativi, che giochino secondo le regole per assicurare che tutte le aziende possano operare sui mercati internazionali in condizione di parità, perché se vogliamo un mercato libero, quel mercato deve essere inevitabilmente anche equo». […]
«In molti settori, basti pensare al settore automobilistico, noi siamo tra le poche nazioni che sono in grado di offrire una capacità di filiera: dal design alla componentisica, passando per la manifattura. È importante che anche il mondo imprenditoriale cinese sia cosciente dei vantaggi comparativi, delle regole del mercato italiano, di quanto sia oggi dinamico e aperto ai buoni investimenti, e anche sotto questo profilo c’è un importante lavoro che ci piacerebbe fare insieme, che stiamo cercando di fare insieme finalizzato al riequilibrio degli investimenti».
Il braccio di ferro sui nuovi dazi dell’Unione Europea sulle auto elettriche importate dalla Cina è tuttora in corso. Secondo quanto riportato dalla Reuters l’Italia ha votato “sì” agli aumenti provvisori (fino al 37,6 per cento) approvati il 4 luglio scorso. Ma la decisione definitiva in seno all’Ue verrà presa entro novembre. E, il giorno dell’arrivo a Pechino di Meloni, i media locali hanno sottolineato che, in vista di quell’appuntamento, «qualsiasi passo compiuto verso una comunicazione pragmatica sarebbe encomiabile e prezioso».
Nella visita a Pechino con la quale ha preceduto la sua collega di partito, il ministro delle imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, aveva dichiarato che l’Italia è aperta a una «soluzione negoziale», cioè a una riduzione di tali misure compensative, che un volta approvate definitivamente, resteranno in vigore cinque anni.
Per la Cina quella degli Ev è un’industria strategica, uno dei “tre nuovi” (assieme alle batterie e agli impianti fotovoltaici) che hanno sostituito sul podio dei principali prodotti di esportazione i “tre vecchi”, ovvero, abbigliamento, elettrodomestici, mobili.
L’Italia potrebbe rivelarsi decisiva, aggregandosi ai paesi contrari (Germania, Svezia, Finlandia), ai quali vanno aggiunti quelli “tiepidi”, e ridimensionando sostanzialmente la portata delle misure protezionistiche dell’Ue, sponsorizzate soprattutto dalla Francia e dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, con la quale Meloni è in rotta di collisione.
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A proposito di un possibile investimento in Italia da parte di un produttore cinese di auto elettriche, Meloni ha dichiarato:
«Noi ci siamo limitati a definire accordi di cornice, poi non sta a noi entrare nel merito delle singole intese che si possono sviluppare, dei singoli investimenti. Il tema della mobilità elettrica è all'interno del nostro memorandum di collaborazione industriale, che è una delle intese più importanti che abbiamo sottoscritto. Ora saranno i tavoli tecnici e i ministri competenti a lavorare nello specifico sulla realizzazione di questa intesa».
A Pechino è piaciuta anche la notizia - riportata nei giorni scorsi da Bloomberg - secondo cui il ministro dell’economia, il leghista Giancarlo Giorgetti, si è espresso contro eventuali «azioni unilaterali» del G7 che potrebbero ostacolare gli scambi globali, sottolineando la necessità di proteggere il commercio internazionale, «in particolare data l’enorme capacità industriale della Cina, anche in settori di importanza strategica». Una presa di posizione che il governativo Global Times ha interpretato come «un segnale positivo dell’impegno dell’Italia nel mantenere e rafforzare le relazioni economiche e commerciali con la Cina, riflettendo la sua pragmatica politica estera e strategia economica nell’era della globalizzazione e sottolineando il suo riconoscimento dell’importanza delle relazioni economiche Cina-Italia».
I media governativi cinesi hanno sostenuto che «il progresso economico dell’Ue è strettamente legato a quello della Cina» ed è per questo che «il de-risking dell’Ue suscita divisioni e si trova di fronte a un dilemma, con opinioni diverse tra i suoi stati membri a causa di interessi diversi».
La strategia di Pechino è quella di depotenziare le politiche di “de-risking” - ovvero di riduzione delle dipendenze dalla Cina - lanciate da von der Leyen in coordinamento con Washington. E proprio in quest’ottica l’Italia a caccia di investimenti produttivi, in un’Ue politicamente più frammentata dopo il voto del 6-9 giugno scorso e con Meloni che ha votato contro la rielezione di von der Leyen, potrebbe tornarle utile a Pechino.
In definitiva, con la visita in Cina di Meloni il governo ha inteso ricucire lo strappo della via della Seta e segnalato alla controparte la volontà di rilanciare le relazioni economico-commerciali. E, a tal fine, ha siglato una serie di dichiarazioni d’intenti.
In questo contesto, una maggiore indipendenza del governo Meloni rispetto alle politiche di “de-risking” di von der Leyen potrebbe rivelarsi nei prossimi mesi utile a ottenere “concessioni” da parte di Pechino (qualche investimento cinese in Italia e un parziale riequilibrio del disavanzo commerciale).
Tuttavia, nell’attuale fase di contrapposizione tra Stati Uniti e Cina, la collocazione ultra-atlantista dell’esecutivo potrebbe (così come ha dimostrato lo strappo sul memorandum) continuare a rappresentare un freno nello sviluppo delle relazioni bilaterali Italia-Cina.