Meloni porta l'Italia fuori dalla via della Seta
La decisione comunicata ufficialmente a Pechino proprio mentre la Cina prova a "ricucire" con l'Unione Europea e gli Stati Uniti
Buongiorno da Shanghai.
Senza clamore (come chiesto dai cinesi), dopo settimane di dialogo con la controparte, e senza diramare alcun comunicato ufficiale, il governo Meloni ha disdetto ufficialmente la partecipazione dell’Italia alla Belt and Road Initiative, inviando lunedì scorso a Pechino una notifica, così come previsto - in caso di rinuncia da parte di uno dei due paesi - dal memorandum d’intesa “sulla collaborazione nell’ambito della via della Seta economica e dell’iniziativa per una via della Seta marittima del XXI secolo" firmato nel marzo 2019 dal governo Conte I. Termina in questo modo l’anomalia italiana, unico paese del G7 ad aver fatto parte del progetto di politica estera ed economica lanciato nel 2013 dal presidente cinese, Xi Jinping.
Si può parlare di “anomalia”, perché il memorandum rappresentava anzitutto un riconoscimento politico per l’iniziativa lanciata dieci anni fa da Xi, riconoscimento che all’interno del G7 soltanto l’Italia allora governata dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega di Matteo Salvini volle dare alla Cina. Non è un caso che Meloni porti l’Italia fuori da quel memorandum (che non ha rango di trattato internazionale) pochi giorni prima che - dal 1° gennaio 2024 - scatti la presidenza italiana del G7: il messaggio che si manda all’estero è che la collocazione dell’inedito governo delle destre è solidamente atlantista.
Dunque quella di uscire dalla via della Seta è stata una decisione politica di Giorgia Meloni, coerente con quanto annunciato in campagna elettorale (quando aveva definito “un grosso errore” l’adesione dell’Italia) e con gli obiettivi strategici della presidente del Consiglio: accreditare presso l’establishment internazionale (quello Usa in primis) i suoi Fratelli d’Italia che ostentano ancora la fiamma del Movimento sociale italiano nel simbolo del partito; rafforzare i legami - tramite la presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, molto critica della Cina - con i conservatori europei. La mossa dell’Italia a Pechino non è stata presa bene e qualche mese l’ambasciatore a Roma ha minacciato ritorsioni, ma in questa fase la leadership cinese è alle prese con i problemi dell’economia nazionale e non vuole tensioni con un paese fondatore dell’Unione Europea.
Inoltre la leadership cinese sta promuovendo all’interno del paese un’idea di riapertura post-Covid verso l’estero, dando grande rilievo al tentativo di migliorare le relazioni con gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Per questo lo “strappo” di Meloni è stato sostanzialmente ignorato, i media nazionali non ne hanno praticamente parlato.
In questo contesto si inquadra anche una significativa apertura a cinque paesi dell’Ue. Dal 1° dicembre 2023 al 30 novembre 2024 i possessori di passaporti italiano, spagnolo, francese, tedesco, olandese potranno entrare in Cina per 15 giorni senza bisogno di visto, per motivi di lavoro, turismo, per visitare parenti o amici e per transito. Secondo quanto annunciato dal governo di Pechino, «questa politica aiuterà a promuovere gli scambi tra persone e favorirà uno sviluppo di alta qualità e un’apertura di alto livello». Nel gennaio scorso la Cina ha riaperto completamente le frontiere dopo circa tre anni di chiusure anti-Covid. Ciononostante le statistiche ufficiali hanno rilevato che, nei primi sei mesi di quest’anno, la presenza di viaggiatori stranieri in Cina è calata del 70% rispetto al 2019, ovvero ai livelli pre-Covid.
Alla cooperazione nell’ambito della Belt and Road Initiative promossa da Pechino aderiscono tuttora ufficialmente 148 paesi, tra i quali più della metà dei membri dell’Unione Europea. Si tratta soprattutto di stati dell’area centro-orientale del continente: Austria, Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Grecia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Slovenia e Ungheria.
Nelle intenzioni di Pechino, la firma del memorandum da parte dell’allora ministro degli esteri, Luigi Di Maio, avrebbe dovuto portare altri grandi paesi europei a entrare nella nuova via della Seta. Così non è stato, perché in realtà il riconoscimento politico italiano è arrivato in un momento in cui l’atteggiamento dell’Europa verso la Cina stava già cambiando. E, di lì a qualche mese, sarebbe sopraggiunta la pandemia di Covid-19, che ha contribuito a peggiorare le relazioni tra la Cina e l’Occidente.
«Non ha prodotto gli effetti desiderati e non è più una priorità», ha dichiarato mercoledì scorso il ministro degli esteri, Antonio Tajani, a proposito dei risultati che il memorandum avrebbe potuto produrre sul commercio bilaterale. Come evidenzia il grafico, il deficit commerciale dell’Italia nei confronti della Cina negli ultimi anni non solo non è diminuito, ma nel 2022 ha raggiunto livelli record. A tal proposito è però importante fare due considerazioni:
il deficit commerciale di un paese nei confronti di un altro va contestualizzato: il paese in disavanzo può “compensarlo” con surplus di export nei confronti di altri paesi. Inoltre tra le importazioni - come nel caso di quelle italiane dalla Cina - possono esserci prodotti semilavorati per fabbricare merci destinate all’export;
non c’è stato tempo di testare eventuali effetti positivi che il memorandum avrebbe potuto avere, a causa degli sconvolgimenti prodotti negli ultimi anni dalla pandemia.
Si trattava comunque di un documento dai contenuti piuttosto vaghi, che sarebbe stato opportuno redigere con maggiore attenzione.
Alla fine Meloni ha scelto di “sostituire” il memorandum con il partenariato strategico globale Roma-Pechino siglato dal Berlusconi II nel 2004, che per la leader di Fratelli d’Italia sarà il “faro” dei rapporti Italia-Cina. Tuttavia quell’intesa - che ha istituito il comitato governativo Italia-Cina - appartiene a un’altra era geologica: la Cina era da poco (nel 2001) entrata nell’Organizzazione mondiale del commercio e non aveva ancora superato il Giappone diventando la seconda economia del pianeta. A Pechino c’era un’amministrazione guidata dai riformisti Hu Jintao e Wen Jiabao, e la Cina era alleata dell’Occidente nella “guerra al terrorismo”.
Inoltre neppure quel partenariato è riuscito a sostenere in maniera significativa i rapporti bilaterali. Durante gli anni tra la firma del partenariato strategico globale e quella del memorandum sulla nuova via della Seta, nelle sue relazioni bilaterali con la Cina, l’Italia non ha guadagnato terreno rispetto alla Germania e alla Francia, suoi principali concorrenti nell’Unione Europea.
In definitiva, con l’uscita dal memorandum - così come con la posizione assunta sul conflitto in Ucraina - Meloni ha mandato a Washington un messaggio chiaro sul posizionamento del suo governo in una collocazione solidamente atlantista. Al di là della diplomazia culturale Roma-Pechino e del più che positivo ruolo della presidenza della Repubblica (il presidente, Sergio Mattarella, sarà in Cina all’inizio del 2024) come garante degli storici rapporti tra i due paesi, non si può che prendere atto che il governo - a differenza di Francia e Germania - non ha alcuna visione sulla Cina. Non è un caso che, mentre Olaf Scholz ed Emmanuel Macron hanno compiuto visite di stato a Pechino rispettivamente nel 2022 e nel 2023, nel 2024 non è previsto ancora alcun viaggio in Cina di Meloni. Tutto ciò non potrà certo influire positivamente sulle relazioni bilaterali.
Rapporto SIPRI, il grande balzo in avanti degli armamenti cinesi
Con il 18% della produzione, le compagnie cinesi del settore della difesa occupano la seconda posizione nel mercato globale degli armamenti, dopo gli Stati Uniti (51%). E otto aziende cinesi sono state inserite nel “SIPRI Top 100 Arms Producing and Military Services Companies, 2022”, appena pubblicato dall’autorevole istituzione di Stoccolma. Complessivamente, il fatturato delle otto imprese cinesi nella top 100 stilata dal SIPRI è cresciuto nel 2022 del 2,7%, toccando i 108 miliardi di dollari. Norinco, al settimo posto della classifica SIPRI, resta il principale produttore cinese di armamenti e nel 2022 ha registrato ricavi per 22,1 miliardi di dollari (+4,4%). La Aviation Industry Corporation of China (AVIC) si è classificata all’ottavo posto, con un aumento dei ricavi del 4,7%, a 20,6 miliardi di dollari. La crescita più rapida nel 2022 è stata quella del China South Industries Group, che ha visto i ricavi aumentare del 12% a 6,5 miliardi di dollari, portandola al 21° posto nell’elenco SIPRI.
Il programma di modernizzazione dell’Esercito popolare di liberazione (Epl) punta all’autosufficienza nella produzione dei sistemi di armamento e si è tradotto in un aumento delle spese militari ininterrotto dal 1995. Secondo Xiao Liang - uno dei ricercatori che ha partecipato al rapporto del SIPRI - la Cina ha raggiunto la capacità di produrre in patria oltre il 90% delle sue componenti militari. La dipendenza dall’estero si fa sentire ancora soprattutto per quanto riguarda i motori dell’aviazione, dove però il made in China sta facendo registrare rapidi progressi. Per il 2023 il governo ha stanziato per la difesa 1.553 miliardi di Yuan (225 miliardi di dollari), +7,2% rispetto all’anno precedente. L’amministrazione Biden ha approvato per quest’anno un budget per la difesa pari a 816,7 miliardi di dollari. Liang ha aggiunto che:
la Cina è uno dei soli tre paesi ad avere un aereo da combattimento di quinta generazione in produzione in serie, ed è un pioniere nei droni armati. AVIC, il principale produttore di aerei cinese, ha registrato un aumento dei ricavi per il secondo anno consecutivo, riflettendo l’aumento della produzione dei suoi aerei da combattimento di quarta generazione e la messa in campo di aerei da combattimento di quinta generazione, ovvero il J-20.
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