Morris Chang, il magnate dei semiconduttori: prodotti fuori da Taiwan i microchip costeranno il doppio, così il "reshoring" Usa danneggerà tutta l'industria moderna
Il fondatore di Tsmc riflette sulla strategia di contenimento tecnologico della Cina e sulle contromosse di Pechino: globalizzazione al tramonto, il "petrolio hi-tech" diventerà più raro e più caro
Chris Miller, l’accademico autore di “Chip War: The Fight for the World’s Most Critical Technology” (Simon & Schuster, 2022), ha definito Morris Chang uno degli imprenditori più influenti degli ultimi cento anni. Nato nel 1931 a Ningbo (sulla costa orientale della Cina), nel 1949 - l’anno in cui a Taiwan i nazionalisti del Kuomintang proclamano la “Repubblica di Cina” - Chang si trasferisce negli Stati Uniti, dove si laurea, in ingegneria meccanica, al Massachusetts Institute of Technology. Nel 1958 inizia a lavorare alla Texas Instrument (dove rimarrà per 25 anni), nel 1964 consegue un dottorato in ingegneria elettronica presso la Stanford University. Nella seconda metà degli anni Ottanta, il premier Sun Yun-suan lo chiama a Taiwan, affidandogli la direzione dello Industrial Technology Research Institute.
Nel 1987 Morris Chang fonda Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), diventata una delle compagnie più importanti del mondo, avendo concentrato nei suoi stabilimenti sull’Isola la produzione del 90% dei microchip più avanzati, i “cervelli” della manifattura e della difesa moderne. Un monopolio che per lungo tempo ha garantito continui avanzamenti tecnologici e prezzi bassi, fattosi improvvisamente insostenibile, per il timore di una nuova crisi dello Stretto (dopo quelle del 1954-55, 1958 e 1996) o, addirittura, di una guerra che coinvolga Taiwan. Nel mutato contesto internazionale caratterizzato dalla competizione con la Cina, gli Stati Uniti hanno dunque persuaso TSMC a iniziare a investire massicciamente al di fuori dell’Isola, su lidi giudicati più sicuri, dagli stessi States, al Giappone, alla Germania.
A Phoenix, in Arizona, TSMC ha ultimato “Fab 21”, l’impianto nel quale, dal 2024, sfornerà chip con tecnologia a 4 nanometri, e sta costruendo un’altra fabbrica nella quale, dal 2026, partirà la produzione di chip a 3 nanometri (attualmente i più avanzati in commercio). La spesa complessiva della multinazionale taiwanese sarà di 40 miliardi di dollari, il maggiore investimento estero diretto mai realizzato negli Stati Uniti. Quando entreranno in funzione entrambi i nuovi stabilimenti, TSMC impiegherà negli Usa 10 mila lavoratori specializzati del settore hi-tech.
Tim Cook, l’amministratore delegato di Apple, ha annunciato che la sua azienda sarà il maggior acquirente della “Fab 21”, di «questi chip che possono essere orgogliosamente punzonati ‘made in America’», che finiranno negli iPhone e nei Mac. A partire dal 2026, le due fab taiwanesi in Arizona produrranno più di 600.000 microchip avanzati ogni anno, che dovrebbero soddisfare l’intera domanda statunitense.
A trarre vantaggio dalla loro vicinanza sarà anche il complesso militare-industriale Usa. Il deputato democratico Greg Stanton ha sottolineato che “Fab 21” assicurerà che componenti impiegati nel sistema militare statunitense non siano creati da una potenza straniera.
Tuttavia, lo sbarco di TSMC a Phoenix ha fatto venire a galla le difficoltà del “reshoring” di un settore complesso e specializzato come quello dei microchip. La costruzione e l’installazione delle apparecchiature hanno subìto ritardi, e la fonderia ha dovuto affrontare carenze di manodopera, mentre i trecento tecnici taiwanesi trasferiti negli Usa devono superare problemi di adattamento al nuovo contesto culturale e professionale.
Questioni sulle quali Chang ha messo in guardia da tempo i policymakers statunitensi. Nel corso del Semiconductor Forum, un incontro tra centinaia di dirigenti del settore che si è svolto il 16 marzo scorso a Taipei, il fondatore di Tsmc ha ricordato:
L’industria dei chip si è concentrata in pochi paesi, perché quei pochi paesi hanno sviluppato vantaggi competitivi. Gli Stati Uniti hanno un enorme vantaggio competitivo nella progettazione. D’altra parte, Taiwan, Giappone e Corea del Sud hanno un vantaggio competitivo nella produzione, grazie soprattutto ai loro abitanti e alla loro cultura del lavoro. Nel settore dei chip, lavoriamo 24 ore su 24, perché i macchinari per produrli sono così costosi che non possiamo permetterci di fermarli nemmeno per poche ore. Negli Stati Uniti un pezzo che si rompe all’una di notte verrà riparato entro la mattina successiva alle nove. A Taiwan, invece, sarà aggiustato alle 2 del mattino, entro un’ora. Questo è il vantaggio competitivo della cultura del lavoro. Taiwan ha tecnici estremamente professionali, laboriosi e qualificati. In Giappone i diplomati degli istituti tecnici sono pronti a essere formati per costruire attrezzature di precisione: di conseguenza i macchinari rimangono in funzione per oltre il 90% del tempo. Negli Stati Uniti solo per il 60%.
Chang ha avvertito che il “reshoring”, ovvero la strategia di riportarne la fabbricazione negli Stati Uniti - scesi dal 37% della produzione globale nel 1990 all’attuale 11% - non soltanto aumenterà notevolmente il prezzo dei microchip, ma potrebbe ridurne l’abbondante disponibilità che negli ultimi anni ha reso così accessibili computer e ogni genere di gadget elettronico. Secondo Chang:
Se rinunci ai vantaggi competitivi di Taiwan e sposti la produzione negli Stati Uniti, la prima cosa che accadrà, e di fatto sta già accadendo, è che i costi saliranno. Le nostre stime, secondo le quali il costo di produzione negli Stati Uniti sarebbe stato superiore del 50% rispetto a Taiwan, si stanno rivelando ottimistiche: forse sarà il doppio. E ciò avrà un impatto sull’ulteriore espansione dell’ubiquità dei chip.
Se insomma con la guerra in Ucraina l’Europa ha trovato in maniera relativamente indolore fonti alternative al gas e al petrolio russo, le tensioni intorno a Taiwan sono destinate a provocare ripercussioni di lungo periodo sull’economia, perché - a differenza delle materie prime energetiche, per le quali l’offerta è relativamente abbondante - al momento nessuno al di fuori di Taiwan è in grado di produrre il “petrolio hi-tech” a prezzi convenienti, con evidenti ripercussioni sui costi di produzione di computer, automobili, elettrodomestici, e della miriade di beni che per funzionare hanno bisogno di microprocessori.
Nonostante ciò, TSMC continuerà ad aprire fabbriche all’estero, perché per le economie avanzate incentivare la produzione locale di microchip serve non soltanto a competere con la Cina, ma risponde anche all’esigenza post-pandemica di poter contare su catene di fornitura più corte e sicure, e a quella post-globalizzazione di riportare in patria una parte del lavoro specializzato esternalizzato.
TSMC sta costruendo nella cittadina di Kikuyo (nella regione di Kyushu) la sua prima fonderia in Giappone, che dovrebbe avviare l’anno prossimo la produzione di semiconduttori a 12 e 16 nanometri, dando impiego a 1.700 persone. Il mese scorso, la stampa nipponica ha rivelato che la multinazionale taiwanese è pronta a investire 7,4 miliardi di dollari in un’altra fabbrica sull’arcipelago, dove sfornare dopo il 2025 microchip a 10 e 5 nanometri. Come negli Stati Uniti, a favorire l’arrivo di TSMC sono la politica industriale, che punta sui semiconduttori, e i relativi sussidi governativi (Tokyo ha offerto 3,6 miliardi di dollari per la costruzione dell’impianto di Kyushu).
TSMC potrebbe presto concludere un accordo con la Sassonia per costruire nello stato orientale della Germania il suo primo impianto europeo, dove produrre chip (meno avanzati) destinati soprattutto al settore dell’automotive. Anche in questo caso però TSMC avrebbe bisogno di sussidi per compensare il costo del lavoro, maggiore rispetto a Taiwan, e la Sassonia è alla ricerca di fondi dell’Ue per coprire questi sussidi.
L’anno scorso l’UE ha presentato lo “European Chips Act” per allentare le regole sui finanziamenti governativi per gli impianti di semiconduttori, sottoposte al divieto di aiuti di stato. Anche l’Unione Europea cerca di garantirsi le sue forniture dopo una carenza di chip sperimentata durante la pandemia di Covid-19. A Tal proposito Morris Chang ha osservato:
Ora un altro problema è il cosiddetto “reshoring” o “friendshoring”, che taglia fuori Taiwan. In effetti, il segretario al commercio Gina Raimondo ha affermato più volte che Taiwan è un posto molto pericoloso. L’America non può fare affidamento su Taiwan per i microchip. Questo è il dilemma di Taiwan. Gli Stati Uniti detengono già il 39% della capacità mondiale di apparecchiature, produzione, progettazione e proprietà intellettuale di semiconduttori, ma solo l’11% della produzione mondiale. Quindi qual è l’obiettivo del loro ‘CHIPS and Science Act’? Intendono tornare al 30%-40% della produzione? Oppure mirano a mantenere l’approvvigionamento essenziale per la sicurezza nazionale? Se l’obiettivo fosse solo quest’ultimo, la loro percentuale di produzione non dovrebbe essere molto alta.
Terry Tsao su questo punto è stato decisamente più diretto: «Le persone a Taiwan apprezzerebbero davvero se gli Stati Uniti potessero chiarire che non hanno intenzione di svuotare l’industria dei semiconduttori di Taiwan», ha dichiarato durante il Semiconductor Forum il presidente dell’associazione di categoria SEMI Taiwan.
Oltre che a riportare in patria la produzione di microchip e ad allontanarla da Taiwan, la strategia Usa per rallentare lo sviluppo da parte di Pechino di queste “componenti chiave” punta anche sull’indebolimento della manifattura in Cina.
Il 21 marzo scorso, il dipartimento del commercio statunitense ha proposto dei “national security guardrails” in base ai quali le aziende che ricevono fondi nell’ambito dei 52 miliardi di dollari di sussidi governativi previsti dal “CHIPS and Science Act” entrato in vigore il 9 agosto scorso non possono utilizzarli per avviare o espandere progetti in Cina, Russia, Iran e Corea del Nord. In base alle nuove norme TSMC dovrà rinunciare all’ammodernamento dell’impianto di Nanchino, dove attualmente produce circuiti integrati con tecnologia a 16 e 12 nanometri. A essere colpite sarebbero anche le coreane Samsung, che ha una fabbrica di chip a Xian, e SK Hynix, che ha un impianto analogo a Wuxi.
L’embargo sui microchip più avanzati decretato da Washington contro Pechino prefigura l’avvento di due mondi tecnologicamente separati: uno guidato dagli Stati Uniti e dai loro alleati, l’altro cinese, che potrebbe inglobare paesi del sud del mondo.
Su questo aspetto, Chang ha dichiarato:
Non ho dubbi che, almeno nel settore dei chip, la globalizzazione sia morta. Basta guardare il modo in cui la Cina è stata attaccata. Il libero scambio non è morto completamente, ma è in pericolo. Ci sarà una biforcazione della catena di approvvigionamento. Penso che gli Stati Uniti abbiano iniziato a praticare la politica industriale sui chip. E parte della politica industriale consiste nel rallentare i progressi della Cina nei chip. Nella tecnologia di produzione, la Cina è indietro di almeno cinque o sei anni rispetto a Taiwan. Guardo il chip più avanzato che stanno realizzando e lo stanno realizzando con difficoltà. Ma quel chip, TSMC lo stava realizzando cinque o sei anni fa con facilità.
Questo mese è stato nominato il nuovo direttore del China Integrated Circuit Industry Investment Fund, il fondo statale (noto come “grande fondo”) d’investimento nel settore dei microchip, considerato uno strumento chiave per la strategia di “autosufficienza tecnologica” della leadership di Pechino. Il giornale economico “Caixin” ha anticipato che si tratta di Zhang Xin, ex dirigente dell’ispettorato del ministero dell’industria e dell’informatica. Il “grande fondo” ha raccolto nel 2014 138,7 miliardi di yuan (20,1 miliardi di dollari) e, nel 2019, 204,1 miliardi di yuan. Ma l’anno scorso è stato scosso da scandali di corruzione che hanno portato all’incriminazione di diversi alti dirigenti, tra cui l’ex direttore. Tra le prime mosse dei nuovi dirigenti del China Integrated Circuit Industry Investment Fund ci sarà l’investimento di altri 1,9 miliardi di dollari nello Yangtze Memory Technologies Co. (YMTC), il maggior produttore di chip di memoria del paese.
Anche i governi locali stanno accelerando lo sviluppo di una serie di progetti che rientrano nella strategia nazionale della “autosufficienza tecnologica”, ovvero riuscire a produrre in patria le “componenti chiave” per lo sviluppo tecnologico, tra le quali i microprocessori.
Il fondatore di TSMC però è scettico sulla strategia cinese:
Penso che le parole di Jensen Huang siano state le più chiare al riguardo. Il presidente di Nvidia ha detto che TSMC ha imparato a ballare con 400 partner. Intel ha sempre ballato da sola. Apprezzo molto i complimenti sul fatto che il successo di TSMC non deriva dal fare le cose da sola, ma nell’integrarsi molto profondamente nella catena di fornitura internazionale. Acquistiamo macchine utensili dagli Stati Uniti e dai Paesi Bassi, materiali e prodotti chimici dal Giappone. La storia di successo di Taiwan non è quella di un paese che fa da sé, ma una storia di integrazione dei migliori al mondo.
Tuttavia la Cina ha poche alternative, dal momento che la collaborazione con i “migliori del mondo” è resa sempre più difficile dal sempre più pervasivo embargo statunitense.
Per far fronte alle restrizioni degli Stati Uniti, su impulso del ministero del commercio e della Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma (Ndrc) il 30 dicembre 2022 la metropoli di Shenzhen ha inaugurato (nel distretto economico di Qianhai) lo Electronic Components and Integrated Circuits International Trading Center Co, una piattaforma internazionale (finanziata da una dozzina di aziende di stato oltre a compagnie private) che mira ad attirare in Cina società attive nel settore dei semiconduttori di tutto il mondo, inclusi produttori e distributori. Tra i suoi maggiori azionisti figurano il produttore di apparecchiature per le telecomunicazioni China Electronics Corp (CEC) e il fondo del governo locale Shenzhen Investment Holdings.
Il piano governativo punta a incoraggiare le aziende di elettronica e microchip ad aprire negozi sulla piattaforma, in modo tale da «incoraggiare i clienti nazionali ed esteri ad acquistare componenti elettronici e vari tipi di chip» attraverso la stessa piattaforma. Si spera così che le aziende che operano a Shenzhen - grazie alle infrastrutture online e fisiche disponibili - si uniscano e ottengano una maggiore influenza nella negoziazione di attrezzature, componenti e materie prime.
Suzhou, metropoli manifatturiera della provincia orientale del Jiangsu, punta quest’anno a un aumento del 20% della produzione della sua industria dei semiconduttori. Suzhou è sede di oltre 300 aziende che fanno parte della catena di fornitura di semiconduttori cinese. Le entrate di questo settore raggiungeranno i 120 miliardi di yuan (17,28 miliardi di dollari) nel 2023, rispetto ai 100 miliardi di yuan dell'anno scorso. Le autorità cittadine stanno anche cercando di avviare da due a tre nuovi “progetti di ricerca tecnologica di base”, promuovere lo sviluppo di 10 “aziende innovative leader” e aggiunge quest’anno al suo ecosistema locale di semiconduttori altre tre aziende quotate in borsa.
A febbraio, il governo municipale di Guangzhou, il capoluogo della provincia meridionale del Guangdong, ha annunciato un investimento di 200 miliardi di yuan (29 miliardi di dollari) per istituire fondi che contribuiranno a stimolare le attività legate alla produzione di semiconduttori.
Nello stesso mese di febbraio, Hangzhou, capoluogo della provincia orientale dello Zhejiang, si è impegnata a sostenere l’industria locale dei semiconduttori, promettendo sussidi per la ricerca sulle “componenti chiave” e le apparecchiature di base utilizzate nello sviluppo dei microchip.
Shanghai - dove ha sede il colosso nazionale Semiconductor Manufacturing International Corporation (Smic), e che attualmente rappresenta un quarto della produzione cinese di semiconduttori - ha in programma di costruire cinque aree industriali, alcune delle quali si concentreranno sui microchip.
Uno sviluppo interessante è quello relativo ai chip fotonici, dei quali il “Beijing Daily” ha annunciato l’avvio della prima linea di produzione cinese, quest’anno, da parte della startup SinTone, fondata a Pechino nel 2020.
Nei chip fotonici la trasmissione dei dati - più veloce e meno energivora che in quelli tradizionali - avviene attraverso la luce anziché l’elettricità. Si tratta di una tecnologia che sta attirando investimenti sempre più massicci anche da parte delle corporation dei paesi più avanzati, come la californiana Nvidia, che ha partecipato a un investimento di 130 milioni di dollari nella startup Ayar Labs.
Per produrre i chip fotonici non sono richieste macchine litografiche di fascia alta come la litografia ultravioletta estrema (quelle delle quali le multinazionali olandese Asml e nipponica Tokyo Electron si apprestano a bloccare le esportazioni in Cina) e possono essere prodotti utilizzando materie prime e apparecchiature già mature in Cina.
Dall’avvio di una prima linea, alla produzione di massa, il passo potrebbe non essere breve. I chip fotonici hanno costi di produzione estremamente elevati e, al momento, sono adatti solo a determinate applicazioni, come i computer quantistici. Eppure è forte la suggestione che - come nel caso del passaggio dal motore a scoppio a quello elettrico - la Cina possa recuperare terreno grazie a un’innovazione che soppianta la tecnologia precedente.