Il partito riabilita Alibaba e le big di internet; la Cina nel mirino della Nato; passerella di inviati di Biden a Pechino
L'economia cinese ha bisogno dei suoi colossi privati per far ripartire la crescita e sostenere l'innovazione in una fase interna e internazionale sempre più difficile
Dopo due anni e mezzo scanditi da inchieste antitrust, quotazioni in borsa bloccate all’ultimo minuto, multe miliardarie e riorganizzazioni di vertici aziendali, si è finalmente conclusa la campagna “regolatoria” del governo di Pechino nei confronti dei colossi nazionali di internet. Ad aprire ufficialmente una nuova fase per la grandi compagnie private che operano attraverso piattaforme digitali è stato un comunicato, con il quale il 12 luglio scorso la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma (Ndrc) ha annunciato l’approvazione di una serie di progetti di Alibaba, Meituan, Tencent e altre:
Pur avendo ottenuto ricchi rendimenti e migliorato la loro competitività di base attraverso i loro investimenti, le società di piattaforme hanno anche contribuito all’autosufficienza tecnologica, all’economia reale e allo sviluppo di alta qualità del paese. Per la prossima fase, la Ndrc autorizzerà casi di investimento tipici per le società di piattaforme e le sosterrà a svolgere un ruolo più attivo nello sviluppo economico, nella creazione di posti di lavoro e nella concorrenza internazionale.
La Ndrc ha anche tracciato i confini dei cosiddetti progetti “semaforo verde”, quelli in cui i giganti privati di internet possono investire ricevendo nello stesso tempo il sostegno del governo.
Al termine di un’indagine avviata nel marzo scorso, la Commissione ha rilevato che le prime dieci società di piattaforme (in base alla loro capitalizzazione di mercato) hanno allineato le loro attività alle priorità governative, aumentando nel primo trimestre 2023 gli investimenti in microchip, tecnologia a guida autonoma, nuova energia e agricoltura (+15,6% rispetto a Q4 2022). «A giudicare dalla nostra ricerca, le società di piattaforme continuano ad aumentare i loro investimenti nell’innovazione tecnologica e a potenziare l’economia reale», ha aggiunto la Ndrc. Il loro contributo alla ricerca e allo sviluppo è stato di 500 miliardi di yuan (69,3 miliardi di dollari) negli ultimi tre anni, mentre la crescita annuale è stata del 15%. «Sono diventate una forza chiave per l’innovazione delle tecnologie digitali».
La fine della campagna “regolatoria” e il via libera alla ripresa degli investimenti delle big tech arriva in una fase di prolungato rallentamento della crescita dell’economia cinese, della quale lunedì 17 luglio verranno pubblicati i dati relativi al Pil del secondo trimestre 2023. E segnala un indirizzo di politica economica importante, considerando che le grandi aziende di internet nel 2022 rappresentavano oltre il 40% del Pil e che sono considerate un fondamentale motore di crescita. Per questo il premier Li Qiang ha assicurato che il governo manterrà una comunicazione costante con le società di piattaforme per «stare al passo con le difficoltà e le preoccupazioni aziendali, migliorare le politiche e le misure pertinenti e spingere per uno sviluppo sano e sostenibile dell’economia delle piattaforme in linea con le normative».
Mercoledì scorso Li ha incontrato i vertici di Alibaba (commercio elettronico), Meituan (food delivery), ByteDance (TikTok), Xiaohongshu (social media), Lalatech (logistica digitale), Huolala (consegne a domicilio) e HAIZOL (componentistica) invitandoli a continuare a promuovere l’innovazione, accelerare la loro competitività a livello globale e svolgere un ruolo guida nello sviluppo e nella creazione di posti di lavoro.
Il premier ha anche esortato i governi locali a sostenere maggiormente le aziende Internet, creare un ambiente equo e ridurre i costi di conformità per promuovere il sano sviluppo dell'economia delle piattaforme.
Il numero due del partito comunista ha affermato che il suo gabinetto si concentrerà sull’attuazione di una combinazione di impulsi per garantire crescita stabile, occupazione e prevenzione dei rischi. Li ha riconosciuto il complesso intreccio di questioni strutturali e contraddizioni cicliche, chiedendo la rapida attuazione di misure politiche mirate, globali e concertate, poiché la Cina si trova attualmente in una “congiuntura critica” di ripresa economica e potenziamento industriale.
Alla Conferenza centrale di lavoro economico del dicembre scorso, che ha stabilito l’agenda politica economica della Cina per il 2023, i leader del partito comunista cinese hanno annunciato un forte impegno a sostegno delle imprese di piattaforme digitali, con un appello esplicito al rapido sviluppo dell’economia digitale, alla normalizzazione della regolamentazione del settore e al sostegno per il ruolo delle imprese di piattaforma nella crescita economica, nella creazione di posti di lavoro e nella concorrenza globale.
Meno finanza-più innovazione; contrasto ai giganteschi monopoli digitali; allineamento dei contenuti delle big di internet con la propaganda del partito. Sono state queste le linee guida della campagna lanciata da Xi Jinping per rimettere in riga Alibaba e le altre che ora, meno ricche e meno indipendenti di due anni e mezzo fa, vengono chiamate a dare un sostegno decisivo all’economia cinese in una fase di difficoltà.
La Nato si è montata la testa? La guerra in Ucraina non è ancora finita, ma l’Alleanza pensa già ad “allargarsi” all’Asia-Pacifico
«Nell’attuale grave contesto di sicurezza internazionale, la sicurezza dell’Europa e dell’Indo-Pacifico sono inseparabili. Il Giappone e la Nato sono d’accordo sul fatto che i tentativi unilaterali di cambiare lo status quo con la forza o la coercizione non saranno tollerati, ovunque nel mondo». Questa equazione, fatta dal premier nipponico Fumio Kishida durante il vertice della Nato di Vilnius (11-12 luglio), è esattamente ciò che Pechino respinge con forza, per scongiurare nell’Indo-Pacifico quelle che giudica “ingerenze” dell’Alleanza atlantica, istituita nel 1949 per fronteggiare la “minaccia” sovietica in Europa. Eppure la Nato - impegnata dalla difficile prova del sostegno alla resistenza ucraina - sembra già guardare a oriente. Non a caso al summit nella capitale lituana (così come a quello precedente, a Madrid) hanno partecipato anche Giappone, Corea del sud (entrambi hanno recentemente aperto uffici di rappresentanza presso la Nato a Bruxelles), Australia e Nuova Zelanda.
Nel comunicato ufficiale con il quale si è chiuso un incontro dedicato soprattutto al conflitto in Ucraina, la Cina viene citata già al punto 6, dove si sostiene che «le ambizioni dichiarate e le politiche coercitive della Repubblica popolare cinese (RPC) sfidano i nostri interessi, la nostra sicurezza e i nostri valori». Ma sono i paragrafi 23-25 a contenere un’ulteriore elaborazione rispetto a quanto già affermato nel decennale “Strategic Concept” pubblicato nel 2022, che ha messo nero su bianco che la Cina «pone sfide sistemiche alla sicurezza euro-atlantica».
23. Le ambizioni dichiarate e le politiche coercitive della Repubblica popolare cinese sfidano i nostri interessi, la nostra sicurezza e i nostri valori. La RPC utilizza un’ampia gamma di strumenti politici, economici e militari per aumentare la sua impronta globale e il suo potere di progetto, pur rimanendo opaca sulla sua strategia, intenzioni e rafforzamento militare. Le dannose operazioni ibride e informatiche della RPC, la sua retorica conflittuale e la disinformazione prendono di mira gli alleati e danneggiano la sicurezza dell'Alleanza. La RPC cerca di controllare i settori tecnologici e industriali chiave, le infrastrutture critiche, i materiali strategici e le catene di approvvigionamento. Usa la sua leva economica per creare dipendenze strategiche e aumentare la sua influenza. Si sforza di sovvertire l’ordine internazionale basato su regole, anche nei settori spaziale, informatico e marittimo.
24. Rimaniamo aperti a un impegno costruttivo con la RPC, anche per creare trasparenza reciproca, al fine di salvaguardare gli interessi di sicurezza dell’Alleanza. Stiamo lavorando insieme responsabilmente, come alleati, per affrontare le sfide sistemiche poste dalla RPC alla sicurezza euro-atlantica e garantire la capacità duratura della NATO di garantire la difesa e la sicurezza degli alleati. Stiamo rafforzando la nostra consapevolezza condivisa, migliorando la nostra resilienza e preparazione e proteggendoci dalle tattiche coercitive della RPC e dagli sforzi per dividere l’Alleanza. Sosterremo i nostri valori condivisi e l'ordine internazionale basato su regole, inclusa la libertà di navigazione.
25. L'approfondimento del partenariato strategico tra la RPC e la Russia ei loro tentativi, che si rafforzano reciprocamente, di indebolire l’ordine internazionale basato su regole sono contrari ai nostri valori e interessi. Chiediamo alla RPC di svolgere un ruolo costruttivo come membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, di condannare la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, di astenersi dal sostenere in alcun modo lo sforzo bellico della Russia, di cessare di amplificare la falsa narrativa della Russia che incolpa l’Ucraina e NATO per la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina e per aderire agli scopi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite. Chiediamo in particolare alla RPC di agire in modo responsabile e di astenersi dal fornire qualsiasi aiuto letale alla Russia.
Si tratta di una serie di accuse (in diversi punti piuttosto vaghe) di carattere politico (il tentativo della Cina di dar vita a un sistema alternativo all’ordine liberale internazionale a guida Usa e il rafforzamento delle relazioni bilaterali Pechino-Mosca) con la quale l’Alleanza si mette in scia con gli Stati Uniti, il G7, l’Unione Europea, alimentando una campagna che dipinge la Cina come “cattiva” e “aggressiva”. Un’operazione non necessariamente funzionale all’espansione della Nato in Oriente, sulla quale al momento non c’è condivisione all’interno dell’Alleanza, come dimostra il veto posto pubblicamente da Emmanuel Macron all’ipotesi dell’apertura di un ufficio della Nato a Tokyo.
Attraverso il suo portavoce, Wang Wenbin, il ministero degli esteri di Pechino ha reagito così al vertice di Vilnius:
Il comunicato del vertice Nato confonde giusto e sbagliato, inverte bianco e nero ed è pieno di pensiero da guerra fredda e pregiudizi ideologici, a cui la Cina si oppone fermamente. I legami che la Nato sta sviluppando con i partner indo-pacifici non faranno altro che suscitare tensioni regionali, innescando scontri tra i campi e persino una nuova Guerra Fredda. I paesi dell’Asia-Pacifico non lo accolgono, e molti paesi della Nato non sono a favore della sua “Asia-Pacificizzazione”, e la regione dell'Asia-Pacifico non ha bisogno di una versione Asia-Pacifico della Nato. Esortiamo la Nato a smettere immediatamente di distorcere, diffamare e fabbricare bugie contro la Cina, abbandonare i concetti obsoleti del pensiero della guerra fredda e dei giochi a somma zero, rinunciare all’errata convinzione nella forza militare e nel perseguimento della sicurezza assoluta.
Dichiarazioni contenute, rispetto a quella dell’ex primo ministro australiano, Paul Keating, che ha definito il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, un “idiota supremo” per il suo tentativo di rafforzare il legami del blocco con l’Asia-Pacifico.
Probabilmente non ci sarà mai una vera e propria espansione della Nato nell’Asia-Pacifico (tra l’altro, per l’ingresso di un novo membro è richiesta l’unanimità). Tuttavia Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Corea del sud stanno lavorando a partnership bilaterali con la Nato, e nello stesso tempo stanno esplorando la cosiddetta interoperabilità, ovvero la capacità di condurre operazioni congiunte limitatamente ad alcuni ambiti, ad esempio la cybersicurezza o la sicurezza marittima. E queste partnership costituiscono un altro tassello importante nella rete in espansione di legami diplomatici e di sicurezza tra gli Stati Uniti (la potenza egemone nell’area, grazie anche alla VII Flotta), i suoi alleati occidentali e la regione indo-pacifica. Partnership che vedono in prima linea AUKUS (Australia, Regno Unito, Stati Uniti) e il redivivo Quad tra Stati Uniti, Giappone, Australia e India.
Passerella di inviati di Biden per allentare la tensione con Pechino… poi arriveranno le presidenziali Usa e i candidati faranno a gara a chi si mostra più anti-Cina
Domenica 9 luglio, al termine della visita di quattro giorni a Pechino della segretaria al tesoro, Janet Yellen, Cina e Stati Uniti non hanno annunciato alcun accordo. A conclusione del suo viaggio, Yellen ha dichiarato: «Ritengo che i miei incontri bilaterali, della durata complessiva di circa 10 ore, siano stati un passo avanti nei nostri sforzi per porre le relazioni Usa-Cina su basi più sicure». Anche l’inviato per il clima della Casa Bianca, John Kerry, dovrebbe sbarcare a Pechino entro la fine di questo mese, mentre già si parla dell’arrivo nella capitale cinese anche della segretaria al commercio, Gina Raimondo.
Yellen non è certo un “falco” dell’amministrazione Biden, eppure a Pechino ha ribadito che Washington vuole «una sana competizione economica a vantaggio dei lavoratori e delle imprese americane». E ha reclamato più spazio per le aziende Usa nel mercato cinese, che però è caratterizzato sempre più dal protagonismo delle compagnie nazionali che perseguono gli obiettivi indicati dal governo. Yellen ha aggiunto che «agiremo per proteggere la nostra sicurezza nazionale quando necessario e questo viaggio rappresenta un’opportunità per evitare problemi di comunicazione o incomprensioni».
Nonostante i 690 miliardi di dollari di interscambio registrati nel 2022, le relazioni sino-statunitensi non sono più imperniate, come negli ultimi decenni, sul reciproco vantaggio economico: a condizionarle, sono ora anche interessi di sicurezza nazionale divergenti. E ciò limita le possibilità di riavvicinamento tra la potenza in ascesa e quella egemone.
La guerra commerciale Usa/Cina; il contenimento tecnologico della Cina da parte degli Stati Uniti; le tensioni su Taiwan. Queste tre fratture sono difficilmente ricomponibili, come rilevano gli stessi studiosi cinesi. Il viaggio di Yellen «mirava a stabilizzare le relazioni bilaterali, ma solo un allentamento del contenimento tecnologico sulle aziende cinesi, così come il cambiamento dell'atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti di Taiwan, possono migliorare sostanzialmente i rapporti Cina-Usa», ha spiegato Gong Jiong, docente presso la University of International Business and Economics di Pechino.
Mentre l’inviata di Biden era a Pechino, il ministero delle finanze cinese ha pubblicato un comunicato per ricordare che «dalla guerra commerciale, dal decoupling e dalla “rottura delle catene” non emergerà alcun vincitore». Il 3 luglio scorso Pechino ha annunciato limitazioni alle esportazioni di gallio e germanio, metalli strategici per l’industria hi-tech dei quali la Cina detiene rispettivamente il 95 e il 67 per cento della produzione. Una mossa che, ha replicato il dipartimento del commercio Usa, «sottolinea la necessità di diversificare le catene di fornitura». E che arriva a pochi giorni dall’annuncio da parte dell’Olanda (che si è allineata a Usa e Giappone) del blocco della vendita alla Cina dei macchinari più avanzati per la fabbricazione di microchip.
Yellen ha sottolineato che «esiste un’importante distinzione tra il decoupling, da un lato e, dall’altro, la diversificazione delle catene di approvvigionamento cruciali o l’adozione di azioni mirate di sicurezza nazionale». E ha aggiunto che la stragrande maggioranza degli scambi tra Cina e Stati Uniti non sperimenta problemi «porta benefici reciproci e vogliamo continuarla». A Pechino però questa suona come una rassicurazione che non rassicura, perché nessuno ha mai creduto nella volontà di separare l’economia cinese da quella statunitense, non è questo il punto. Il problema, che resta irrisolto, è quello della spirale protezionismo-sanzioni, rappresaglie innescata dal de-risking che gli Usa (e l’Unione Europea) ritengono ormai necessario.
«Gli abusi della sicurezza nazionale danneggerebbero le normali interazioni economiche e commerciali», ha scritto l’8 luglio l’agenzia ufficiale Xinhua dopo che Yellen aveva incontrato il vice premier He Lifeng, il funzionario del partito comunista a cui è affidata la guida nelle discussioni commerciali con gli Stati Uniti. Il giorno successivo uno dei candidati più forti alle primarie repubblicane, Ron DeSantis, ha annunciato la sua intenzione - qualora fosse eletto presidente degli Stati Uniti - di revocare alla Cina lo status commerciale di “most favored nation”. Nei prossimi mesi i politici statunitensi entreranno nella campagna elettorale in vista delle presidenziali del 5 novembre 2024, una campagna nella quale le relazioni con la Cina avranno un ruolo importante.
Mentre la segretaria del tesoro ieri incontrava il premier Li Qiang, Xi Jinping ha effettuato un’ispezione nella provincia orientale del Jiangsu - una roccaforte hi-tech - dove ha ribadito l’obiettivo di «un alto livello di autosufficienza nella scienza e nella tecnologia», e il ministro dell’industria e dell’informatica ha annunciato l’istituzione di un organismo governativo per la creazione di uno standard nazionale per i large language models (Llm) utilizzati per istruire l’intelligenza artificiale.
La leadership cinese punta a ottenere da Biden la riduzione di alcuni dazi che stanno contribuendo a deprimere l’export della Cina, e il ritiro dell’indagine lanciata dal governo Usa nel 2018 sulle politiche e le pratiche cinesi relative al trasferimento di tecnologia. Yellen ha incontrato alcuni tra i principali leader del partito comunista tra cui il segretario generale, Xi Jinping, il premier Li Qiang, il vice premier He Lifeng, e l’ex zar dell’economia Liu He. In agenda c’era anche i contraccolpi (la fuga di capitali anzitutto) del rialzo dei tassi da parte della Fed in una fase in cui la Banca centrale cinese li sta abbassando per favorire gli investimenti.
Ma, al di là della retorica ufficiale che esalta perfino l’arcobaleno che ha accolto l’atterraggio di Yellen, i cinesi sono rassegnati ad avere nei prossimi anni un rapporto più burrascoso con gli Usa. Non a caso Pechino sta scommettendo sulle aree di libero scambio nelle quali gli Stati Uniti sono assenti, come la Regional Comprehensive Economic Partnership entrata in vigore il 1° gennaio 2022 di cui la Cina fa parte, e il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership alla cui porta non si stanca di bussare.
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