La Spagna apre l'Ue alle auto cinesi
Chery inaugura a Barcellona la produzione di macchine ibride resuscitando un marchio locale e salvando posti di lavoro
Benvenut* in Rassegna Cina.
Il Trump II si annuncia come un sequel assai più scoppiettante della prima edizione, perché il presidente eletto ora non ha argini, essendosi questa volta, a differenza che nel suo primo mandato, circondato unicamente di yes men. Bisognerà tuttavia attendere i primi provvedimenti della prossima amministrazione Usa e le reazioni di Pechino, che saranno con ogni probabilità improntate alla massima prudenza, nel tentativo di accreditarsi sempre di più come nazione “responsabile”, economia “aperta” e guida del Sud globale contro il protezionismo e l’unilateralismo che rappresenteranno la cifra del gabinetto da guerra commerciale di Trump e dei suoi ministri ultraconservatori.
In questo scenario l’Europa guidata da una Commissione von der Leyen molto debole sarà in grado di ritagliarsi uno spazio per difendere i suoi interessi, oppure finirà per essere il vaso di coccio schiacciato tra la Cina e gli Stati Uniti?
Buongiorno da Shanghai da Michelangelo Cocco.
Il 23 novembre è iniziata nella Zona Franca di Barcellona la produzione di auto della joint-venture siglata nell’aprile scorso tra il costruttore cinese Chery e quello spagnolo Ebro-EV Motors. L’accordo prevede la produzione di 50.000 veicoli all’anno entro il 2027, per arrivare a 150.000 all’anno entro il 2029.
Per ora si tratta di semplice assemblaggio, tramite un metodo DKD diretto: le parti spedite dalla Cina che vengono montate in Spagna. Poi si passerà a un modello CKD, che include anche saldature, verniciature e assemblaggi locali.
La joint-venture tra Chery ed Ebro-EV Motors ha permesso di resuscitare il marchio Ebro - azienda di veicoli commerciali scomparsa nel 1987 - e darà lavoro a 1.250 persone, tra cui i licenziati per la chiusura dell’impianto Nissan, recuperato per fabbricare i nuovi modelli della joint-venture sino-iberica.
Ebro-EV Motors aveva rilevato da Nissan lo stabilimento dopo che la casa automobilistica giapponese lo aveva chiuso nel 2021. Sotto i nuovi proprietari, l’impianto sfornerà inizialmente tre modelli SUV: subito, S700 e S800, a marchio Ebro (entrambi con motori ibridi plug-in, PHEV, o ICE), basati su Chery Tiggo 7 e Tiggo 8; e, a partire dal primo trimestre 2025, Omoda 5 a marchio Chery (nelle versioni elettrica e a combustione interna, ICE).
L’accordo sino-iberico e il rilancio del marchio Ebro sono il frutto di un investimento di 400 milioni di euro reso possibile dalla collaborazione tra il governo di Madrid, le autorità catalane, i sindacati, investitori e i due produttori. «Non è comune assistere alla rinascita di un marchio iconico e oggi condividiamo tutti un sentimento di gioia», ha commentato il primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez.
A Barcellona è attesa anche l’istituzione di un centro di ricerca e sviluppo Chery-Ebro-EV Motors. E, secondo l’agenzia di stato Xinhua, in Spagna verranno aperti 45 punti vendita, 30 dei quali entro la fine dell’anno.
Nel 2023, Chery ha esportato 937.148 veicoli, in crescita del 101,1 per cento su base annua, il volume di export più alto di qualsiasi casa automobilistica cinese. Quest’anno Chery - le cui vendite sono concentrate in Asia centrale, Medio Oriente e America latina - supererà per la prima volta 1 milione di vetture consegnate all’estero.
Chery (compagnia di stato controllata dal governo di Wuhu) è la seconda azienda cinese ad avviare la produzione all’interno dell’Unione Europea, dopo Leapmotor che, in partnership con Stellantis, nel giugno scorso ha iniziato a fabbricare elettriche compatte nel suo impianto di Tychy, in Polonia. Mentre BYD sta costruendo un grosso impianto in Ungheria, che dovrebbe essere inaugurato a fine 2025. In questo modo i carmaker cinesi potranno aggirare l’aumento dei dazi recentemente varato dall’Ue.
Nel 2023 erano di brand cinesi il 7,6 per cento delle auto elettriche vendute nell’Unione Europea.
Al termine dell’indagine “anti sussidi” della Commissione Europea, il 30 ottobre scorso sono entrati in vigore dazi supplementari (che si sommano a quelli preesistenti del 10 per cento) fino al 35,3 per cento sulle importazioni nell’UE di veicoli elettrici fabbricati in Cina.
Martedì scorso la direttrice generale per il commercio dell’Ue ha smentito le voci secondo le quali sarebbe in vista un accordo sul prezzo minimo dei veicoli elettrici importati dalla Cina, che sostituirebbe i nuovi dazi. «Penso che ci siano state notizie piuttosto confuse sull’imminente accordo sui veicoli elettrici a batteria», ha dichiarato a Bruxelles Sabine Weyand, aggiungendo che permangono «questioni strutturali irrisolte con la controparte cinese».
Trump: subito dazi contro la Cina
Il presidente eletto degli Stati Uniti ha annunciato nuovi dazi contro la Cina che entreranno in vigore il giorno stesso del suo insediamento, il 20 gennaio 2025. Lunedì scorso Donald Trump ha fatto sapere attraverso il suo “Truth Social” che «addebiterà alla Cina una tariffa del 10 per cento, al di là di ogni altra tariffa aggiuntiva, su tutti i suoi numerosi prodotti in arrivo negli Stati Uniti» fino a quando la Cina non avrà effettivamente interrotto le spedizioni di fentanyl negli Stati Uniti.
«La Cina ha portato avanti con gli Stati Uniti un’ampia e approfondita cooperazione antidroga e… ha ottenuto risultati notevoli, il che è evidente», ha risposto il ministero degli esteri di Pechino in riferimento alla collaborazione rafforzata in materia nell’ultimo anno e mezzo tra l’amministrazione Biden e il governo cinese.
Come che sia, da un punto di vista politico l’uscita di Trump segnala la volontà del magnate repubblicano di adottare fin da subito un atteggiamento molto aggressivo nei confronti di Pechino.
Lo conferma la scelta come suo rappresentante per il commercio di Jamieson Greer, ex capo di gabinetto di Robert Lightizer, ultra protezionista artefice, nello stesso ruolo che ricoprirà Greer, della prima guerra commerciale di Trump contro la Cina, partita nel 2018.
In sostanza c’è da attendersi da Trump un accanimento sui dazi sulle importazioni del made in China, come mezzo per arrivare a un negoziato come quello che, nel 2020, portò all’accordo economico-commerciale del 15 gennaio 2020 che prevedeva, tra l’altro, l’aumento delle importazioni cinesi di prodotti statunitensi.
Tuttavia le associazioni di categoria Usa dubitano che - nell’attuale quadro geopolitico - si possa arrivare a una intesa simile, e raccomandano il dialogo per favorire un maggiore accesso ai mercati cinesi, piuttosto che l’aumento di dazi (che Trump ha annunciato fino al 60 per cento contro la Cina), che rischia di scatenare rappresaglie dannose per la maggior parte dei business.
In Cina senza visto, da 15 a 30 giorni e per altri nove paesi: sostegno alla crescita e operazione simpatia
A partire dal 30 novembre 2024 la possibilità di permanere nella Repubblica popolare cinese (Rpc) senza visto d’ingresso sarà estesa da 15 a 30 giorni e accordata ad altri nove paesi, portando così a 38 gli stati beneficiari di questo incentivo, tra i quali figura anche l’Italia.
L’ingresso e la permanenza senza visto fino a 30 giorni saranno consentiti per i seguenti motivi: turismo, affari, visita a familiari, transito - ai quali sono stati aggiunti gli scambi (ad es. quelli culturali). L’apertura è definita “unilaterale” (non decisa assieme ai rispettivi paesi in base al criterio di reciprocità) ed è ufficialmente “provvisoria”, in quanto sarà valida fino al 31 dicembre 2025.
I 38 paesi che potranno godere delle nuove facilitazioni sono: Andorra, Australia, Austria, Belgio, Brunei, Bulgaria, Croazia, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Islanda, Irlanda, Italia, Giappone, Lettonia, Liechtenstein, Lussemburgo, Malesia, Malta, Monaco, Montenegro, Olanda, Nuova Zelanda, Macedonia del Nord, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Slovenia, Corea del Sud, Spagna, Svizzera.
Con il provvedimento varato il 22 novembre scorso, il governo di Pechino punta a favorire lo sviluppo del settore turistico e dei relativi servizi, diventati una componente rilevante del prodotto interno lordo, soprattutto in seguito al boom del turismo interno. Oltre a stimolare turismo e investimenti in una fase di complessivo rallentamento della domanda interna, l’arrivo degli stranieri favorisce la diffusione dell’immagine di un paese aperto e accogliente.
Secondo i dati della National immigration administration, nei primi tre trimestri del 2024, gli stranieri hanno effettuato 22,821 milioni di viaggi in in Cina, di cui il 58,8 per cento, ovvero 13.427 milioni, approfittando della politica di esenzione dal visto.
La Cina deve ancora riprendersi dalle ripercussioni che le lunghe chiusure anti- Covid - e, in particolare, il lockdown di Shanghai - hanno avuto sulla sua immagine nel resto del mondo. Nel 2023, secondo le statistiche del governo, la Rpc ha registrato 35,5 milioni di ingressi e uscite di stranieri. Ciò a fronte dei 97,7 milioni del 2019, l’ultimo anno prima della pandemia. Nel 2018 - secondo Jiefang Daily - a Shanghai risiedevano 218.000 lavoratori stranieri, ridottisi - secondo i dati del governo - a 72.000 alla fine del 2023.
Dai principali paesi europei si registra però un boom del turismo in Cina (con, nell’ordine, Shanghai, Pechino, Guangzhou e Shenzhen destinazioni preferite) anche rispetto al livello pre-pandemico. I dati dell’agenzia di viaggi online Trip.com hanno mostrato infatti nel 2023 un aumento del 663 per cento delle prenotazioni complessive dall’Europa rispetto all’anno precedente e un incremento di quasi il 29 per cento rispetto al 2019.
Il canto del cigno del G7 sulla Cina
E gli Usa inviano missili a Giappone e Filippine
Rimanere uniti per contrastare quelle «politiche della Cina che destano preoccupazione» e affermare il principio secondo il quale «la sicurezza dell’Europa e dell’Indo-Pacifico sono collegate». Così Antony Blinken, in chiusura, martedì 26 novembre, della riunione dei ministri degli esteri del G7 che si è svolta a Fiuggi.
Il segretario di stato Usa ha provato a riaffermare assieme ai principali alleati europei e al Giappone i due elementi sui quali è stata incardinata la politica sulla Cina dell’amministrazione uscente, che potrebbero essere scardinati dal governo guidato da Donald Trump, che si insedierà il 20 gennaio prossimo: il coordinamento con gli alleati sulle politiche sulla Cina e l’idea secondo la quale la sicurezza dell’Europa e quella dell’Asia-Pacifico sarebbero collegate.
Nel corso della riunione, dedicata in prevalenza alle guerre in Ucraina e Medio Oriente, come testimonia il comunicato finale, la Cina, vista essenzialmente come una questione di “sicurezza”, ha trovato comunque ampio spazio, anche in riferimento alle accuse contro «attori in Cina e in paesi terzi che sostengono materialmente la macchina da guerra russa».
Con l’arrivo dell’amministrazione Trump con ogni probabilità gli Stati Uniti avranno un approccio alla Cina diverso da quello adottato da Biden, basato su un tentativo di contenimento della Cina in coordinamento con i tradizionali alleati regionali e del G7. Per questo motivo, oltre all’appello all’unità, Washington ha proceduto con l’approvazione di nuove forniture di armamenti, prima dell’arrivo dell’isolazionista Trump.
In particolare, come rivelato dall’agenzia nipponica Kyodo, gli Stati Uniti intendono schierare il Reggimento della Marina Littorale statunitense dotato di un sistema di lancio di razzi Himars lungo le isole Nansei, vicino a Taiwan. Secondo la stessa agenzia di stampa, lo spiegamento nell’arcipelago noto anche come Ryukus farà parte di un piano operativo USA-Giappone per affrontare una contingenza di Taiwan.
Secondo la stessa fonte, Il piano di emergenza includerebbe anche l’installazione di unità missilistiche a lungo raggio statunitensi nelle Filippine, dove l’esercito americano schiererà le unità di fuoco a lungo raggio della Multi-Domain Task Force. Queste unità si aggiungeranno al sistema missilistico a medio raggio Typhon che gli Stati Uniti hanno stazionato nel nord di Luzon da aprile.
Cosa sto leggendo
Bailing out its banks: China’s hidden debt problem Ben Charoenwong
China–India pact a borderline solution Dániel Balázs
"Gli occidentali predicano 'l'amore di Dio' e 'l'amore per l'uomo', e sembrano credere davvero a quei principi. Eppure muovono guerra con navi e cannoni per conquistare il popolo con la forza, e ai cinesi impongono l'oppio, un veleno peggiore della peste."
(Zhigang 1868)